È la più grande esercitazione militare dello stato ebraico degli ultimi 20 anni e durerà 10 giorni. Intanto, attivisti israeliani denunciano: “Stop alle armi alla giunta militare birmana”
della redazione
Roma, 5 settembre 2017, Nena News – La più grande esercitazione militare israeliana degli ultimi 20 anni: è la simulazione del conflitto con i libanesi di Hezbollah iniziata oggi nel nord d’Israele. L’addestramento durerà 10 giorni, ha riferito alla stampa una fonte della difesa, durante i quali verranno “simulati scenari che potremmo incontrare nel prossimo conflitto con Hezbollah”. Impiegati migliaia di soldati (inclusi riservisti), unità cinofile, aerei da guerra, elicotteri per evacuare feriti e morti, navi e sottomarini. L’esercito ha anche allestito due ospedali da campo. L’esercitazione sarà anche l’occasione per sperimentare camion senza pilota.
La simulazione del conflitto lascia presagire uno sempre più vero con i combattenti filo-iraniani? Difficile ormai escludere questa possibilità: lo stato ebraico e gli Stati Uniti lo scorso mese hanno accusato la missione Onu di peacekeeping in Libano (Unifil) di aver chiuso gli occhi di fronte al contrabbando di armi e all’assembramento di combattenti del Partito di Dio nel sud del Paese dei Cedri a confine con Israele. Una mossa che Tel Aviv ha prontamente denunciato e che alcuni commentatori hanno letto come possibile segnale di una nuova guerra tra i due fronti. Le fonti militari israeliane hanno però provato a calmare gli animi: i preparativi per l’esercitazione sono incominciati già un anno e mezzo. Non sarebbero dunque collegati ai recenti fatti di cronaca. Eppure il “pericolo” Hezbollah è stato più volte ribadito dai generali israeliani negli ultimi anni: a loro giudizio, infatti, questa volta i combattenti sciiti potrebbero minacciare seriamente le comunità settentrionali d’Israele. Questo perché, fanno notare, il Partito di Dio ha acquisito notevole esperienza nella guerra civile siriana dove partecipano migliaia dei suoi uomini in sostegno al presidente Bashar al-Asad.
“Pacificato” per ora il confine sud con la Striscia di Gaza, le attenzioni di Tel Aviv sono tutte rivolte al nord del Paese. Particolarmente monitorata è la situazione in Siria dove la devastante guerra civile sta producendo risultati contrari alle aspettative del governo Netanyahu. A far vivere notti agitate alla leadership militare e politica dello stato ebraico è la presenza sempre più consistente di gruppi filo-iraniani e di Hezbollah nel sud della Siria in prossimità del Golan.
Nonostante gli sforzi compiuti in questi anni da Israele (bombardamenti contro carichi di armi diretti ai combattenti libanesi, aiuti sanitari e militari a gruppi qaedisti siriani come ha denunciato anche l’Onu), al-Asad non solo non è caduto, ma grazie al sostegno dei suoi alleati (Russia, Iran e Hezbollah) ha ripreso quasi interamente la parte occidentale del Paese e continua ad avanzare lentamente nelle aree centrali e orientali della Siria. Né hanno tranquillizzato Tel Aviv gli incontri e le conversazioni del premier Netanyahu con Putin e il recente viaggio in Usa di una delegazione israeliana guidata dal capo del Mosad (Servizi Segreti) per ottenere maggiori rassicurazioni sul nuovo scenario che si è venuto a creare al confine meridionale siriano, ormai “minaccioso” al pari di quello libanese.
La guerra tra Israele e Hezbollah del 2006 terminò con un accordo di cessate il fuoco che portò, con la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, ad aumento delle truppe dell’Unifil da 2.000 a 10.000. La 1701, inoltre, invitò le due parti belligeranti alla formazione di una zona cuscinetto priva di “personale armato” a sud del fiume Litani (20 km a nord del confine israeliano). La scorsa settimana il Consiglio di sicurezza ha riconfermato il mandato Onu in Libano sebbene lo abbia modificato in senso anti-Hezbollah al punto che Israele ha parlato di “vittoria”. I nuovi aggiustamenti prevedono che le truppe Unifil “prendano tutte le misure necessarie nelle aree in cui sono dispiegate per garantirne la sicurezza” in termini di pattugliamenti e ispezioni.
Da un’esercitazione per una guerra possibile ad un vero e proprio massacro in corso: Israele, denunciano gli attivisti umanitari, sta infatti continuando a vendere armi in Birmania mentre migliaia di rifugiati Rohingya scappano dalle violenze compiute dai militari nello stato del Rakhine. Tra gli armamenti venduti, riferiscono gli attivisti umanitari e ufficiali birmani, ci sarebbero anche 100 carri armati. A fare affari d’oro ci sarebbero alcune compagnie israeliane specializzate nel settore: tra queste, in particolare, la Tar Ideal che ha addestrato le forze speciali locali attualmente operative nel Rakhine.
In seguito alla visita di alcuni ufficiali di Tel Aviv in Birmania per discutere la vendita di armi, gli attivisti israeliani lanciarono a gennaio una campagna per porre fine all’invio di armamenti alla giunta militare asiatica. Un primo obiettivo l’hanno ottenuto: questo mese presenteranno la questione alla Corte suprema. “Israele non ha alcun controllo di dove siano le sue armi una volta che le ha mandate – ha detto Eytay Mack, un avvocato e difensore dei diritti umani di Tel Aviv citato dal portale Middle East Eye”. Un altro attivista, Ofer Neiman, ha collegato quanto sta accadendo in Birmania all’occupazione della Palestina: “La vendita di armamenti alla giunta militare birmana è fortemente collegata all’oppressione israeliana e alla spoliazione del popolo palestinese. Le armi usate contro i palestinesi sono vendute ad alcuni dei peggiori regimi del pianeta dopo averle testate sul campo”.
Secondo il ministero della difesa, però, la corte non ha alcuna giurisdizione sull’argomento e la vendita è stata “chiaramente diplomatica”. Nena News