Battaglia nella raffineria di Baiji. Il Kurdistan vende il primo cargo di greggio a Israele. Obama e il leader religioso sciita “invitano” il premier a farsi da parte.
AGGIORNAMENTO ore 10.45 – ISLAMISTI ASSUMONO IL CONTROLLO DEL CONFINE DI AL-QAIM CON LA SIRIA
Questa mattina le milizie qaediste del Siil hanno preso il controllo della frontiera di Al-Qaim, al confine con la Siria. Un’importante vittoria strategica: ora possono gestire con più facilità il passaggio di armi e miliziani dal territorio siriano.
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di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 21 giugno 2014, Nena News – Per il terzo giorno di fila la raffineria di Baiji è teatro della battaglia tra esercito governativo e milizie jihadiste. L’impianto, a 250 km da Baghdad, è occupato per oltre la metà dal Siil che a due settimane dal lancio dell’offensiva controlla gran parte del nord: le province di Anbar, Salah-a-Din, Ninawa e Diyala. Proseguono gli scontri anche nella città sciita e turkmena di Tal Afar, a ovest, tra Mosul e il confine con la Siria: nel sesto giorno di battaglia, i jihadisti mantengono ancora il controllo della città.
E se il campo energetico è diventato ormai fondamentale perno di controllo del paese, a muoversi è ancora il Kurdistan iracheno che ha saputo approfittare del caos che sta travolgendo il potere centrale: il primo cargo di greggio fatto salpare per l’estero ha trovato ieri la sua destinazione, il porto israeliano di Ashkelon. Lo scambio è avvenuto via Turchia, con il petrolio consegnato al porto di Ceyhan attraverso un condotto autonomo. La prima vendita indipendente curda bypassa Baghdad, scatenando le ire dell’esecutivo da tempo impegnato in un braccio di ferro con la regione autonoma che rivendica i propri diritti di commercio. Israele preferisce non rilasciare dichiarazioni, avendo ben poco da perdere dall’eventuale reazione irachena, visto il boicottaggio che molti paesi arabi – tra cui l’Iraq – impongono allo Stato sionista.
L’ulteriore prova della debolezza dell’esecutivo iracheno: il premier Nouri al-Maliki è soffocato dall’avanzata islamista e le richieste ormai sempre più determinate – seppur indirette – dell’Occidente. Giovedì alla Casa Bianca il presidente Obama ha annunciato l’invio di 300 consiglieri militari in centri di coordinamento congiunti a sostegno dell’esercito iracheno, lo stesso smantellato dagli Usa negli anni dell’occupazione. Obama ha fatto sapere che il segretario di Stato Kerry volerà nel fine settimana in Medio Oriente, mentre i tanto attesi bombardamenti con i droni si tradurranno in non meglio specificate «azioni mirate contro i miliziani sunniti». In ogni caso, nessun marine metterà piede in territorio iracheno.
Kerry ha reiterato la richiesta di un governo nuovo, di unità nazionale, che coinvolga tutte le componenti etniche e religiose del paese. Un chiaro messaggio a Maliki, espresso anche dal leader religioso sciita, l’Ayatollah Ali Al-Sistani, che nei giorni scorsi aveva invitato la comunità sciita ad imbracciare le armi contro la minaccia islamista. La guida spirituale ha ieri velatamente chiesto a Maliki di farsi da parte per permettere la formazione di un nuovo governo.
Maliki non manda giù il rospo e accusa Washington di «mancanza di serietà nella volontà di combattere i terroristi»: «Ritardare la lotta contro il Siil e porre delle condizioni all’azione – ha detto il vice ministro degli Esteri Abdollahian – sollevano sospetti sugli obiettivi statunitensi in Iraq». Eppure qualcosa si muove nella strategia Usa: il caos iracheno è il prodotto finale della divisione regionale tra asse sciita e Golfo, ognuno impegnato a spostare l’ago della bilancia di potere a proprio favore. La longa manus saudita sulla Siria – a cui l’Iran e Hezbollah hanno da subito reagito con sostegno militare al presidente Assad – ha in questi tre anni di guerra armato, stipendiato e finanziato i gruppi islamisti più radicali, creando il terreno di coltura adatto ad una crescita spropositata. Quegli stessi gruppi che, una volta marginalizzate le opposizioni moderate siriane, ora dichiarano il loro obiettivo (comune a quello delle petromonarchie): la creazione di un califfato sunnita tra Siria e Iraq, che spezzi la continuità territoriale e politica dei paesi sciiti.
Oggi Obama “apre” gli occhi e, consapevole degli stretti legami tra la guerra civile siriana e la tragedia irachena, legge i due conflitti come una sfida unica. La risposta sarà il rinnovato sostegno alle fazioni laiche anti-Assad: «La chiave di volta sarà il lavoro con i moderati siriani e un governo iracheno inclusivo e una piattaforma di controterrorismo più efficace». La strada è quella già segnata: addestramento delle milizie di opposizione in Giordania, aiuti militari, denaro. La stessa strategia che ha condotto alla distruzione di Siria e Iraq.