L’attentato, rivendicato dallo “Stato Islamico”, è avvenuto vicino ad un mercato a Sadr City, nella parte nord orientale di Baghdad. Il Tribunale Supremo iracheno, intanto, fa sapere di aver processato più di 500 jihadisti stranieri dall’inizio del 2018
della redazione
Roma, 10 maggio 2019, Nena News – Torna a colpire a Baghdad il terrore dello Stato Islamico (Is) dove ieri un’esplosione nel quartiere di Sadr City (parte nord-orientale della capitale) ha provocato la morte di almeno 8 persone. Secondo quanto ha rivelato alla stampa il colonnello della polizia Jamal Hammed, a provocare la deflagrazione sarebbe stato un pacco-bomba posizionato nei pressi di un mercato e attivato da lontano con un telecomando. Una ricostruzione che contrasta con quella iniziale in cui si era parlato di un attentatore suicida che si era fatto esplodere dopo essere stato circondato dalle forze di sicurezza. Una versione, quest’ultima, che è stata in parte confermata da una nota dell’Is che parla di un attacco compiuto da un uomo-bomba che ha provocato la morte di 8 persone e il ferimento di altre 10.
La tempistica dell’attentato compiuto ieri non è affatto casuale: giunge, infatti, a pochi giorni dall’inizio del mese sacro del Ramadan quando i musulmani, dopo aver digiunato dall’alba al tramonto, sono soliti riunirsi nei luoghi pubblici dopo aver rotto il digiuno. Sebbene sconfitto militarmente nel 2017 dopo che per 3 anni aveva occupato larghe porzioni del nord-ovest iracheno, il “califfato” continua a mietere vittime di tanto in tanto con gli attentati. L’obiettivo è chiaro: creare panico e caos in un Paese fragilissimo, dilaniato da oltre 16 anni di guerra e violenze. Violenze iniziate nel 2003 quando gli Usa, appoggiati dai loro alleati occidentali, decisero di intervenire militarmente in Iraq nell’ambito della loro “guerra al terrore”. Washington giustificò agli occhi dell’opinione pubblica americana e internazionale il suo intervento bellico con il pretesto che bisognava distruggere le armi di distruzioni di massa di cui era in possesso il presidente iracheno Saddam Hussein. Peccato che quelle armi non siano mai state ritrovate perché non esistevano. Dall’occupazione militare occidentale, il Paese si è nei fatti dissolto politicamente e socialmente: alle brutalità occidentali, si sono aggiunte quelle devastanti e sanguinose del ramo iracheno di al-Qa’eda; le campagne anti-sunnite del governo centrale; e infine l’ascesa del “califfato” e i massacri settari non meno cruenti da parte delle milizie sciite anti-Is legate all’esecutivo iracheno e sostenute dall’Iran.
Al di là delle problematiche sociali ed economiche, il post-“Stato Islamico” è uno dei temi principali che deve affrontare il governo iracheno. Non solo per gli attentati che, seppur sporadicamente, continuano a provocare vittime nel Paese. Ma anche per come va gestita la presenza dei jihadisti catturati sul suo territorio. Mercoledì la Corte suprema irachena ha fatto sapere che dall’inizio del 2018 più di 500 jihadisti stranieri agli ordini del “califfo” al-Baghdadi sono stati processati in Iraq. In una nota il tribunale supremo ha fatto sapere che “514 di loro (sia donne che uomini) sono stati condannati, 44 sono ancora sotto processo e infine 202 sono accusati di appartenenza al gruppo estremista islamico e sono al momento sotto interrogatorio”. La massima corte del Paese ha inoltre affermato che gli interrogatori per quelli che sono accusati di appartenere all’Is durano almeno 6 mesi, ma, per chi è sospettato di aver preso parte attiva alle operazioni del “califfato”, i tempi si possono allungare anche a più di un anno. Ai jihadisti stranieri condannati è stato comminato in molti casi l’ergastolo, ma anche la pena di morte (anche se al momento la sentenza non è stata eseguita). Diverso è l’esito per i jihadisti iracheni, 900 dei quali sono stati rimpatriati dalla Siria. Molti di loro hanno ricevuto la pena di morte (poi implementata) sulla base della Legge irachena sull’anti-terrorismo. La sentenza capitale è più che quadruplicata in Iraq: si è passati infatti dai 65 casi del 2017 ai 271 dello scorso anno.
Durissime sono le accuse lanciate dalle organizzazioni per i diritti umani nei confronti delle autorità irachene: le condanne ai jihadisti, denunciano, si basano su confessioni ottenute sotto tortura. Secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato lo scorso mese, l’Iraq è tra i cinque paesi al mondo che ha giustiziato più persone. Nena News