La collaborazione tra i due paesi in campo politico ed economico si fa sempre più stretta: lo scorso 26 luglio, per la prima volta, un capo di stato israeliano ha visitato Belgrado. Tel Aviv può ormai contare su un importante alleato in una regione spesso considerata a lei ostile
di Marco Siragusa
Roma, 30 luglio 2018, Nena News – Lo scorso 26 luglio una delegazione del governo israeliano guidata dal presidente Rueven Rivlin ha fatto tappa a Belgrado per una visita ufficiale al suo omologo Alexsandar Vučić. Si tratta della prima visita di un capo di stato israeliano in Serbia. All’incontro, presentato come l’occasione per il miglioramento del dialogo e della cooperazione economica tra i due paesi, hanno partecipato anche il ministro dell’economia Eli Cohen e quello dell’agricoltura Uri Ariel.
Il 26 luglio 2018 entrerà di diritto nella storia delle relazioni diplomatiche tra lo stato d’Israele e la Serbia. Per la prima volta infatti un capo di stato israeliano ha visitato la capitale serba per un incontro ufficiale. Il colloquio è stato l’occasione per discutere non solo di questioni economiche, con la decisione di avviare una più stretta collaborazione attraverso la creazione di un comitato misto nel settore della cooperazione e degli investimenti, ma anche per ricordare la presenza storica delle comunità ebraiche nella regione. Il presidente Rivlin ha espresso tutta la sua soddisfazione per la legge emanata nel 2016 dal parlamento serbo sulla restituzione alla comunità ebraica delle proprietà che erano state sequestrate dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale e considerata come una legge modello da diffondere anche in altri paesi.
L’incontro tra i due capi di stato è stato seguito da una cerimonia per l’intitolazione di una via di Zemun, sobborgo alle porte di Belgrado, al fondatore del sionismo Theodor Herzl. La scelta della località non è stata casuale. Durante l’occupazione nazista l’ex quartiere fieristico di Sajmište, a Zemun, fu trasformato in un enorme campo di concentramento per rom, ebrei e prigionieri politici. Si stima che nel campo trovarono la morte circa 8 mila ebrei deportati da tutta la regione. Nel periodo precedente la seconda guerra mondiale gli ebrei presenti in tutta la Jugoslavia erano circa 70 mila, mentre dopo la conclusione del conflitto il numero scese a 6500/7000 persone.
I rapporti tra le comunità ebraiche, una quarantina disseminate in tutti i paesi della regione, e i gruppi partigiani comunisti guidati da Tito furono tutt’altro che conflittuali. Molti ebrei presero parte attiva alla resistenza armata contro i nazisti e il governo collaborazionista dello Stato Indipendente Croato (NDH), una scelta questa che ebbe ripercussioni più ampie anche a distanza di decenni nei rapporti tra Israele e gli stati nati dalla dissoluzione della Jugoslavia socialista negli anni ’90. Le relazioni tra Israele e la Serbia, ai tempi una delle sei repubbliche jugoslave, sono state spesso altalenanti, legate più che altro a questioni politiche relative alle guerre arabo-israeliane.
La fondazione dello Stato di Israele nel 1948 provocò inizialmente un positivo atteggiamento jugoslavo nei confronti degli ebrei. Le nuove istituzioni socialiste favorirono infatti il passaggio e il trasferimento di migliaia di persone verso il neonato stato. Il sostegno alla creazione di Israele rientrava, secondo le posizioni della dirigenza comunista, nella lotta antimperialista e si concretizzò nel caldeggiare la soluzione dei due stati presso le Nazioni Unite.
La guerra arabo-israeliana dei Sei giorni del 1967 portò ad una prima vera rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi. La politica jugoslava in Medio Oriente divenne sempre più filo-araba giungendo ad identificare Israele come paese “aggressore”. Precedentemente lo stesso Ben-Gurion chiese a Tito, leader e fondatore del Movimento dei Non Allineati, di mediare nel conflitto. Il Maresciallo però si rifiutò, sostenendo apertamente le rivendicazioni arabe e sostenendo il riarmo dell’Egitto dell’amico Nasser e dell’OLP. Le divergenze si mantennero però su un piano prettamente politico, mentre le relazioni commerciali tra i due paesi non subirono nessuna forma di rottura.
La morte di Tito nel 1980 e l’avvio del processo di disintegrazione della Jugoslavia socialista cambiarono gli equilibri e gli interessi in campo. Durante le guerre degli anni ’90, Serbia e Israele si trovarono nuovamente alleati. La dichiarazione di indipendenza croata del 1991 portata avanti da Tudjman non poteva provocare altra reazione se non quella di una chiara contrapposizione da parte israeliana. Il partito dell’Unione Democratica Croata (HDZ) di Tudjman non nascose mai le sue simpatie per il regime fascista, ne sono esempio la scelta di adottare la bandiera del regime collaborazionista come bandiera ufficiale del nuovo stato croato e le continue dichiarazioni revisioniste sull’Olocausto. Israele si rifiutò allora di instaurare qualsiasi forma di relazione diplomatiche con la Croazia fino alla morte di Tudjman, virando verso una politica filo-serba.
A spingere Israele verso un aperto sostegno al regime di Milošević contribuì inoltre la guerra contro i bosniacchi, i musulmani di Bosnia. Tel Aviv era preoccupata di una possibile avanzata musulmana nella regione e del rischio di radicalizzazione islamica che avrebbe potuto creare non pochi problemi allo stato ebraico. A partire dalla fine degli anni ’80 il miglioramento dei rapporti tra Belgrado e Tel Aviv si manifestò con la creazione nel 1989 della Società dell’amicizia ebraico-serba, che può essere considerata come la prima ONG ad operare in Jugoslavia. L’anno successivo, nell’estate del 1990, l’allora primo ministro serbo Stanko Radmilović e il suo entourage di 300 membri visitarono Israele come segno di una rinata amicizia tra i due paesi.
La guerra in Kosovo del 1999 contribuì ulteriormente al miglioramento dei rapporti. L’allora ministro degli Esteri Ariel Sharon dichiarò che “un Kosovo indipendente potrebbe diventare un centro di terrorismo islamico in Europa”. La paura del fondamentalismo islamico spinse Israele a sostenere le rivendicazioni serbe, creando non pochi screzi con l’alleato americano e la NATO.
La situazione è continuata a migliorare dopo la caduta del regime di Milošević nell’ottobre 2000. Da allora la cooperazione tra i due paesi si è rafforzata sempre di più, coinvolgendo il settore culturale, quello economico e della lotta al terrorismo. Il mancato riconoscimento dell’indipendenza kosovara da parte di Tel Aviv ha rinforzato inoltre i legami politici con Belgrado. Il rifiuto di Israele di riconoscere il Kosovo come stato indipendente deriva dal timore di esser costretto ad attuare la stessa politica nei confronti della Palestina, oltre alla già citata paura circa la costituzione di una zona franca per il terrorismo islamico in Europa.
Pur con le dovute e consistenti differenze tra la questione palestinese e quella kosovara, un eventuale riconoscimento di quest’ultima porrebbe Israele in una posizione contraddittoria all’interno della comunità internazionale. Lo stesso problema, ad esempio, è riscontrabile in Spagna alle prese con le lotte indipendentiste catalane e basche.
La visita di Rivlin a Belgrado rappresenta senza dubbio un importante passo in avanti per una più stretta collaborazione non solo in campo politico, grazie alle comuni letture della storia meno recente e alle identiche posizioni sulle questioni attuali, ma anche in campo economico e commerciale. L’intenzione dei due presidenti è quella di sviluppare ulteriormente gli scambi e soprattutto favorire gli investimenti israeliani nel paese balcanico, anche attraverso progetti di sostegno al turismo.
Con questo breve summit Vučić dimostra ancora una volta la sua capacità di interloquire indistintamente con tutti gli attori regionali e globali, riuscendo a trovare un equilibrio complesso ma sicuramente favorevole per il suo paese. Dall’altro lato Israele può contare su un importante alleato in una regione spesso ostile. L’incontro si è concluso con l’invito del presidente israeliano al suo omologo serbo per una visita ufficiale in Israele nel prossimo futuro.