Nonostante dal punto di vista diplomatico il loro ruolo risulti pressoché inesistente, Albania e Kosovo hanno prontamente sostenuto l’alleato statunitense nell’escalation militare con l’Iran. Più cauti gli altri paesi della regione
di Marco Siragusa
Roma, 14 gennaio 2019, Nena News – Dopo l’uccisione del Generale iraniano Qassem Soleimani voluta dal presidente Donald Trump in persona, il rischio di una guerra tra Iran e Stati Uniti ha raggiunto il livello più alto degli ultimi anni. Sebbene la de-escalation e le sorti della crisi non dipendano dal ruolo esercitato dalle diplomazie balcaniche, non sono mancati attacchi reciproci tra l’Iran e i più fedeli alleati statunitensi nell’area, Albania e Kosovo.
Le polemiche più accese hanno riguardato soprattutto il governo di Tirana. Lo scorso 8 gennaio infatti, durante un intervento pubblico, la Guida suprema Ali Khamenei aveva parlato di un “piccolo e malvagio” paese europeo coinvolto nel sostegno ai manifestanti iraniani in piazza contro il regime. Chiaro il riferimento all’Albania, sede operativa di uno dei più importanti gruppi iraniani di opposizione, il Mujahedeen-e-Khalq (Mek) di cui abbiamo già scritto qui.
Immediata la replica del presidente albanese Ilir Meta che ha voluto sottolineare come il suo non fosse un “paese malvagio ma democratico” che non ha paura di ribadire il proprio sostegno all’alleato statunitense e alla NATO nella lotta al terrorismo internazionale. Contrariamente al silenzio sull’uccisione del Generale Soleimani, il presidente ha tenuto a condannare l’attacco alle basi americane in Iraq del 9 gennaio considerato come “un’azione provocatoria con pericolose conseguenze per la stabilità della regione”. In linea con quanto espresso dal presidente anche il primo ministro Edi Rama ha voluto rilasciare una dichiarazione in cui affermava che la decisione di ospitare membri del MEK è dovuta alla volontà di tutelare e difendere persone “la cui vita risulta in pericolo” a causa della loro opposizione ad “un regime dittatoriale” come quello iraniano.
Mentre lo scontro tra Teheran e Tirana si è mantenuto su un livello mediatico fatto di dichiarazioni, in Kosovo, paese a maggioranza sunnita e quindi in contrasto con l’Iran sciita, la vicenda ha avuto conseguenze più pratiche. Il 7 gennaio infatti è stata arrestata a Pristina una donna accusata dalle autorità di atti terroristici e incitamento alla violenza. L’accusa riguarda un post pubblicato su Facebook con cui Ikballe Berisha-Huduti incitava ad una “vendetta senza confini” nei confronti degli Stati Uniti. La donna, condannata da un tribunale della capitale a 30 giorni di reclusione dopo un fermo preventivo di 48 ore, era già nota alle forze dell’ordine per aver fondato l’organizzazione islamica Kur’ani chiusa dalla polizia nel 2016. La Comunità Islamica del Kosovo ha subito preso le distanze dalle posizioni espresse dalla Berisha-Huduti, negando qualsiasi collegamento con la Comunità.
Se Kosovo e Albania hanno preso posizioni apertamente filo-statunitensi per le loro strette relazioni con Washington, gli altri paesi della regione hanno avuto un atteggiamento più cauto. Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha affermato che “la Serbia è un piccolo paese e non vuole essere coinvolto nel conflitto USA-Iran”. La diplomazia serba, che mantiene buoni rapporti con le autorità irachene per il mancato riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, ha dichiarato tramite il proprio ambasciatore a Baghdad di “rispettare la sovranità della Repubblica irachena” e la volontà di non interferire con le questioni interne del paese.
Ancora più decisa l’azione del governo croato, alle prese per la prima volta con la presidenza semestrale del Consiglio dell’Unione Europea, che ha espresso la volontà di dare seguito alla richiesta del parlamento iracheno di ritirare le truppe straniere presenti sul proprio territorio. Martedì scorso l’esecutivo guidato da Andrej Plenkovic ha infatti deciso il trasferimento di 14 soldati da Baghdad al Kuwait e il ritorno in patria di altri sette militari.
In Bosnia-Erzegovina, nonostante la nota della presidenza tripartita che ha condannato l’attacco all’ambasciata e alle basi USA, l’attenzione si è concentrata sulla presenza in passato del Generale Soleimani nel paese durante le guerre jugoslave degli anni ’90. Secondo quanto riportato dal giornalista croato Hasan Haidar Diab era stato lo stesso Soleimani a confermare la sua presenza in Bosnia durante due incontri avvenuti nel 2016 e nel 2017.
Condanna agli attacchi missilistici iraniani contro le basi USA e richiesta di “massima moderazione” sono arrivate anche dal governo macedone, impegnato nella campagna elettorale per le elezioni anticipate del prossimo 12 aprile. Nena News