Ieri l’esercito ha bloccato l’ingresso nella casa dell’International Solidarity Movement agli attivisti internazionali. Poche ore dopo un checkpoint e blocchi di cemento sono stati posti di fronte all’edificio
di Chiara Cruciati
Roma, 4 novembre 2015, Nena News – Ingresso vietato. Ieri l’esercito israeliano ha impedito agli attivisti internazionali dell’International Solidarity Movement di entrare nella casa dell’organizzazione dove risiedono a Tel Rumeida, nella Città Vecchia di Hebron, zona dichiarata negli anni Novanta H2 (sotto il controllo militare e civile israeliano). E li ha costretti a lasciare una delle zone più calde della città.
La giustificazione data dalle forze armate israeliane è la dichiarazione dell’area “zona militare chiusa”, strumento noto alle comunità palestinesi della Cisgiordania in Area C, spesso utilizzato per impedire l’accesso ai residenti palestinesi. Perché, secondo la legge militare che vige nei Territori Occupati, i civili non possono entrare in zone dichiarate aree chiuse militarmente.
“Fino a questa mattina la zona in cui ci troviamo, Tel Rumeida, non era zona militare chiusa – racconta al telefono a Nena News Martina Silvestri, volontaria italiana dell’Ism, a Hebron insieme ad altri 7 attivisti internazionali – Nel momento in cui un’area viene dichiarata zona militare chiusa, non possono comunque sfrattare i residenti, cacciarli dalle loro case se ci vivono”.
Per Israele, però, gli 8 attivisti non sono residenti ufficialmente in quella casa. A meno che un contratto non lo dimostri: “Ieri mattina stavo andando in ospedale, i soldati mi hanno fermato dicendo che non avevo diritto a stare lì – continua Martina – Il comandante dell’esercito mi ha detto che sarei stata arrestata perché non vivo qui, ma non hanno voluto mostrarmi l’ordine di zona militare chiusa. Quando sono tornata, ho trovato i soldati sulla porta di casa. Ci hanno mostrato l’ordine e chiamato la polizia”.
“I poliziotti hanno requisito i nostri passaporti e chiesto di visionare il contratto della casa, che attestasse che vivevamo lì. Abbiamo chamato il proprietario che si è detto subito disponibile a redigere il contratto in modo ufficiale. La polizia ci ha assicurato che con un contratto legale saremmo potuti entrare in casa. Ma prima ci ha ordinato di prendere tutti i nostri effetti personali dall’edificio e di uscire dalla zona militare chiusa. Abbiamo raccolto le nostre cose e siamo andati via accompagnati dalla polizia, che al checkpoint verso la zona H1 [sotto il controllo palestinese, ndr] ci ha minacciato di deportazione nel caso ci avesse di nuovo visto lì”.
Ora gli otto attivisti sono nella città nuova di Hebron, in attesa del contratto che gli permetta di tornare a casa e monitorare da là la situazione in Shuhada Street, principale arteria commerciale e sociale di Hebron prima della chiusura imposta dall’esercito nel 2000.
“Se non dovessero farci rientrare, non ci saranno internazionali a monitorare violazioni e violenze. In zona militare chiusa può entrare solo chi è nella lista che l’esercito possiede. Ogni persona che entra e esce deve mostrare i documenti, devono controllare se sono nella lista. I palestinesi che vivono qui vengono bloccati per ore per la strada”.
Una situazione di altissima tensione, non fa che aumentare il bilancio di palestinesi uccisi nel cuore di Hebron. Uccisioni a cui si aggiungono vessazioni quotidiane: “L’area H2 e Shuhada Street sono militarizzate – conclude Martina – Registriamo molestie e aggressioni continue sia verso i residenti palestinesi che verso gli internazionali. Quando accompagniamo i bambini a scuola, l’esercito lancia i lacrimogeni. Ieri ha minacciato l’utilizzo di acqua chimica contro gli alunni. E poco fa abbiamo saputo che ha eretto un checkpoint di fronte alla nostra casa a Tel Rumeida e posto blocchi di cemento all’ingresso”. Nena News