Intervista a Wessam, avvocato del Community Action Center- Al Quds University: diversi strumenti legali sono in mano alle autorità israeliane, dalla demolizione delle case alla chiusura dei negozi
di Silvia Termotto
Gerusalemme, 5 maggio 2014, Nena News – Dopo il 1967, con l’occupazione di Gerusalemme Est da parte di Israele e l’avvio del progetto di “giudaizzazione” della città, le politiche israeliane si sono focalizzate sul mantenimento di un equilibrio demografico a maggioranza ebraica (circa il 70% secondo i dati ufficiali). Per farlo, Israele ha tentato da un lato di espellere il maggior numero di palestinesi e dall’altro ha accolto, tramite la concessione di svariati vantaggi economici, ebrei provenienti da tutte le parti del mondo.
Una delle strategie attraverso cui tale indirizzo continua ancora oggi ad essere implementato è legata alla pianificazione urbana, che nega sistematicamente la possibilità ai residenti palestinesi di avere licenze edilizie all’interno della città. Tuttavia a fronte della naturale crescita demografica, questi ultimi sono stati costretti a proseguire con la costruzione delle proprie case senza alcun permesso.
Ed ecco che si crea un circolo vizioso senza un’apparente via d’uscita: non potendo ottenere la licenza di edificare, ogni 2-3 anni circa, i palestinesi devono pagare una certa somma alla municipalità, che si aggiunge ai 1000 NIS al mese (circa 200 euro) di tasse. Nel caso in cui non si sia in grado di versarli, le conseguenze possono essere due: vedere la propria casa ridotta in macerie oppure, per evitare la demolizione, pagare un grosso ammontare di denaro scontando anche alcuni anni di reclusione.
“La sicurezza che la propria casa venga risparmiata non si ha nemmeno pagando la retta mensile. Le demolizioni sono completamente arbitrarie, non si sa se e quando verranno effettuate. Come se non bastasse, il costo per tali procedure è a carico del proprietario, che per distruggere con le proprie mani il frutto dei propri sacrifici è costretto a pagare una somma tra i 40.000 e i 50.000 NIS ”, spiega Wessam Ghanayem, avvocato del Community Action Center-Al Quds University, associazione indipendente no profit (legata all’università palestinese di Abu Dis) con l’obiettivo di sostenere la comunità palestinese di Gerusalemme. Wassem si occupa per lo più della preparazione di petizioni in merito alla terra e alla pianificazione urbana da parte del comune, oltre alla ricerca legale e amministrativa.
Notte fonda, bussano alla porta: “Uscite, abbiamo un ordine di demolizione”. I traumi psicologici dei bambini che vengono svegliati nel cuore della notte per poi vedere la propria casa ridotta in rovine è uno degli effetti meno evidenti ma altrettanto esistenti di tali politiche.
Le visite tuttavia, non sono solo notturne, e non riguardano solo ordini di demolizione. Vengono infatti usati diversi escamotage per difendere la rassicurante maggioranza ebraica a Gerusalemme: talvolta infatti l’autorità israeliana decide di risparmiare le case, negando però il diritto di proprietà ai palestinesi e ottenendone il pieno possesso.
“Le case vengono svuotate principalmente in tre modi – continua Wassem Ghanayem – Innanzitutto, se il proprietario lascia la città (anche solo per una settimana) è possibile che venga dichiarato lo stato di abbandono dell’immobile. Un’altra pratica sempre più comune prevede invece il forzato passaggio di proprietà delle case ai coloni israeliani, i quali, secondo le autorità, avrebbero pagato in precedenza per avere i pieni diritti su di esse; nell’ultimo caso, forse il più comune, la municipalità si limita a dichiarare la falsità dei documenti di proprietà”. Stando dunque a quanto riferisce l’avvocato del centro, qualunque sia la via, il risultato è sempre lo stesso: costringere i palestinesi a lasciare Gerusalemme.
La situazione nella Città Vecchia non è migliore. Gli edifici sono molto antichi, per cui non è possibile realizzare grossi cambiamenti: né costruire nuovi piani, né nuove stanze. Per l’antichità che contraddistingue l’area, quindi, intraprendere un qualsiasi tipo di lavoro, anche di restauro, significa ottenere due permessi: oltre a quello della municipalità, è necessario avere una licenza particolare da parte della Israel Antiquities Authority, compagnia responsabile della salvaguardia dei beni culturali all’interno dello Stato di Israele. “Può capitare di riuscire ad ottenere il permesso dalla municipalità ma non dalla IAA, che impone il pagamento di grosse somme di denaro anche solo per modificare il pavimento. Se queste non vengono versate, anche questo ente può decretare un ordine di demolizione. Nemmeno le attività commerciali vengono risparmiate dall’arbitrarietà delle ordinanze della municipalità. Facendo capo alla legge Cleaning and Order, infatti, le autorità hanno tentato più volte di abbattere le porte dei negozi, giustificando la propria legittimità ad intervenire, facendo appello ai propri diritti decisionali in materia di suolo pubblico”.
Non in tutti i casi tuttavia le autorità hanno successo nell’attuare il proprio progetto: la parte lesa può far ricorso al tribunale, se ha le possibilità economiche. Grosse somme di denaro infatti sono necessarie per far appello alla giustizi”, che comunque, non fa che applicare le leggi israeliane: “Secondo la mia esperienza – conclude Wassem – posso dire che purtroppo i successi non sono dei veri successi. Spesso riusciamo soltanto ad ottenere una riduzione dei danni, come una minore somma da pagare o una parziale applicazione della legge israeliana”.
La legge diviene dunque strumento per portare avanti politiche palesemente discriminatorie contro la popolazione palestinese della città. Vengono utilizzati tutti gli espedienti possibili per costringere le persone a trasferirsi in Cisgiordania e “ripulire” la città dalla presenza araba. Nena News