A seguito delle dichiarazioni di Trump Erdogan ha cercato di presentarsi al mondo come primo difensore della città e alfiere dei diritti palestinesi. Gli obiettivi del sultano turco sembrano, però, trascendere dal ristretto ambito legato a questi ultimi eventi
di Francesca La Bella
Roma, 19 dicembre 2017, Nena News - Dopo il summit straordinario dei paesi islamici dello scorso mercoledì, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha ripreso parola sulla questione Gerusalemme esprimendo la volontà di spostare la propria ambasciata nella parte est della città. Poche ore prima lo stesso presidente turco aveva evidenziato la centralità della difesa della città santa per l’intera comunità musulmana affermando, secondo quanto riportato da Fars News, che “se perdiamo Gerusalemme, non saremo in grado di proteggere Medina. Se perdiamo Medina, perderemo la Mecca e la Kaaba”.
Da queste poche parole risulta immediatamente evidente come lo status di Gerusalemme sia un espediente per parlare di argomenti ben più ampi. A partire dalla dichiarazione con la quale il presidente statunitense Donald Trump ha affermato l’indivisibilità, sotto il controllo esclusivo di Isarele, di Gerusalemme, Erdogan ha cercato di presentarsi al mondo come primo difensore della città e alfiere dei diritti palestinesi. I possibili obiettivi del sultano turco sembrano, però, trascendere dal ristretto ambito legato a questi ultimi eventi.
La questione Gerusalemme permette, infatti, al governo turco di parlare contemporaneamente al mondo arabo e a quello islamico mettendo a sedere allo stesso tavolo, come nel caso del summit della scorsa settimana, anche nemici storici come Iran e Arabia Saudita. Allo stesso modo la campagna contro le scelte di Trump consente ad Erdogan di attaccare quegli Stati Uniti, da sempre importanti alleati turchi, dai quali Ankara si è progressivamente allontanata sia per il sostegno Usa alle popolazioni curde del nord della Siria sia per il presunto supporto al fallito golpe dello scorso anno.
Non si dimentichi, inoltre, che i rapporti tra Turchia e Israele hanno attraversato fasi alterne in questi ultimi anni. Per quanto per il comune interesse di sfruttamento del bacino Leviathan avesse riavvicinato i due paesi, varie questioni hanno contribuito ad approfondire il solco tra Ankara e Tel Aviv. A titolo di esempio si citi l’immediato riconoscimento dell’indipendenza del Kurdistan iracheno da parte israeliana mentre la Turchia chiedeva a gran voce che il referendum venisse annullato e la dichiarazione di indipendenza venisse ritirata.
Merita, infine, evidenziare come le scelte linguistiche e le azioni di Erdogan abbiano sempre l’Arabia Saudita come bersaglio secondario. A seguito della crisi con il Qatar, il mondo arabo-musulmano sembra essersi spaccato in due principali schieramenti che cercano, attraverso alleanze e ambiziose politiche estere, di imporre la propria leadership d’area ed a porsi come interlocutore locale per gli attori internazionali.
Alla luce di questo e del permanere di un asse sciita con una significativo attivismo nell’area, gli attacchi non possono che essere diretti contro il proprio principale contendente regionale: l’Arabia Saudita. Citare la Mecca e Medina e il pericolo che le due città sacre dell’Islam potrebbero attraversare significa puntare direttamente il dito contro i sauditi per la loro vicinanza alla posizioni israeliane e statunitensi e affermare, nemmeno in maniera troppo velata, la non-internità di Riyadh nella grande Umma islamica.
Ancora una volta, dunque, la questione palestinese rischia di diventare strumento per politiche di potenza d’area dalle quali gli stessi palestinesi potrebbero non trarre giovamento, diventando merce di scambio di accordi e di bilanciamenti di potere totalmente indipendenti dalle loro azioni e decisioni. Nena News
Francesca La Bella è su Twitter @LBFra