Le 529 sentenze che decretano la pena capitale hanno riacceso i riflettori sulla Magistratura egiziana, un’istituzione che può essere considerata allo stesso tempo un bastione dello stato autoritario e un attore del cambiamento
di Azzurra Meringolo – Affari Internazionali
Roma, 3 aprile 2014, Nena News – Dopo mesi di suspence e una serie di annunci e smentite, il general Abdel Fattah Al-Sisi ha sciolto definitivamente le riserve sulla sua candidatura. Tolta la divisa militare, Al-Sisi ha iniziato a sfoggiare il guardaroba da presidente che indosserà dopo il successo, scontato, che incasserà alle prossime elezioni.
Mentre quello che viene dipinto come l’unico uomo in grado di salvare l’Egitto dal baratro del terrorismo si appresta a incassare una maggioranza da record, il Cairo ha segnato un altro primato su scala mondiale, pronunciando la più grande condanna collettiva alla pena capitale degli ultimi decenni.
529 sostenitori del deposto presidente islamista Mohammed Mursi sono stati condannati perché ritenuti responsabili del decesso di un poliziotto nel governatorato di Minya. È qui che la scorsa estate centinaia di sostenitori della Fratellanza Musulmana hanno bruciato chiese e attaccato centrali della polizia, nel corso di manifestazioni di protesta contro le operazioni di smantellamento, il 14 agosto, dei sit-in cairoti pro Mursi. Anche se non sono ancora chiare le dinamiche che hanno innescato la mattanza di agosto, le cifre parlano chiaro. Tra i 632 morti, ci sono 624 civili e 8 militari. Rimandata invece al 28 aprile la sentenza per altri 682 sostenitori di Mursi, accusati di crimini simili.
Tutti questi imputati fanno parte di un gruppo di più di 1600 persone sotto accusa a causa delle violenze che hanno portato alla distruzione di una sessantina di chiese nei dintorni di Minya e all’uccisione di una settantina di persone. Le 529 sentenze che decretano la pena capitale, inviate al gran mufti di Al-Azhar che esprimerà un’opinione non vincolante, hanno riacceso i riflettori sulla Magistratura egiziana, un’istituzione che può essere considerata allo stesso tempo un bastione dello stato autoritario e un attore del cambiamento.
Repressione: da Nasser a Sisi
Le recenti sentenze di massa – che presumibilmente non saranno prese sul serio – sono la cartina tornasole di una serie di abusi ai diritti umani oscurati dalla mancanza di dati ufficiali. Secondo i numeri forniti dall’Egyptian Center for Economic and Social Rigths – cifre probabilmente non precise, ma abbastanza affidabili per descrivere il trend in corso – dal 3 luglio scorso – giornata nella quale Mursi è stato deposto dai militari – 16 mila persone sarebbero state arrestate durante manifestazioni e scontri con la polizia. Tra gli oltre 3 mila egiziani vittime della violenza di strada, circa 300 sarebbero morti a causa di attacchi terroristici.
Tra il ‘92 e il ‘98 – quando Mubarak si servì della repressione per contenere l’ascesa islamista – a perdere la vita furono circa 1500 persone. Secondo dati forniti dal centro Ibn Khaldum, nel biennio più caldo – ’93-’95 – morirono circa 1100 persone. Nella successiva ondata di terrorismo, tra il 2004 e il 2006, furono uccise circa 150 persone. Rispetto al passato, ora ad aumentare non è stato solo il numero di vittime. Se fino alla caduta di Mursi i morti si concentravano soprattutto nella penisola del Sinai, da luglio sono state colpite 12 diverse province. Ad aumentare è anche il numero dei detenuti. Tra il ‘54 e il ‘56, il giro di vite di Gamal Abdel Nasser contro gli islamisti portò alla detenzione di più di 20 mila egiziani. Nell’81 il suo successore, Anwar Sadat, fece arrestare 1500 dissidenti. Secondo i dati dall’Egyptian Center for Economic and Social Rights, dal 3 luglio a fine dicembre sarebbero stati arrestati 18 mila civili, non solo islamisti, ma anche manifestanti su posizioni più laiche che hanno partecipato a manifestazioni di strada.
L’indipendenza del giudiziario egiziano
Per comprendere l’atteggiamento della Magistratura serve un’analisi storica che la tratti come un’istituzione in continua evoluzione che opera avendo garanzie – pur incomplete – di indipendenza. Se da un lato questo permise al potere giudiziario di criticare, a volte, le politiche del regime, dall’altro costrinse il regime a sedare le rivolte di quei giudici, in primis quella del 2009, che non erano pronti a sottostare al potere. Nonostante le garanzie di indipendenza, continuano ad esserci pesanti interferenze politiche sulle carriere dei giudici, diverse forme di cooptazione (ad esempio con l’assegnazione di privilegi finanziari a parti determinate della magistratura) e una corruzione dilagante.
L’esecutivo controlla poi l’attività del ministero della Giustizia su molte questioni amministrative. Basta pensare alla prerogativa – fino al 2011 – del presidente della Repubblica di nominare alcune figure chiave come il procuratore generale e il presidente della Suprema corte costituzionale.
Inoltre, il regime continua a servirsi del classico metodo con il quale ha arginato la magistratura nelle questioni più delicate, ossia la creazione all’occorrenza di tribunali speciali come ad esempio i tribunali militari per processare gli oppositori politici.
Quando ha notato che la rivoluzione non era passata nelle aule dei tribunali del paese, nel suo breve periodo al potere, la Fratellanza ha provato a “ripulire” la Magistratura dai rimasugli del vecchio regime. Il tentativo, più che altro una purga organizzata dagli islamisti per eliminare giudici scomodi, è fallito proprio a causa di una serie di scioperi convocati dai medesimi. Inoltre, considerata l’identità corporativa della Magistratura, parlare di indipendenza del giudiziario è molto più semplice che affrontare la questione dell’indipendenza dei singoli giudici.
Gli attori del giudiziario agiscono poi in un contesto profondamente autoritario. Basta pensare alle leggi che regolano l’attività della società civile, la stampa e le manifestazioni per capire come le formali garanzie sui meccanismi democratici vengono bypassate.Una serie di recenti casi giudiziari ha infine mostrato fino a che punto l’apparato di sicurezza riesce ad influenzare, almeno in alcuni casi nei quali è coinvolto più o meno direttamente, il corso della giustizia.
Dallo scorso luglio, l’Egitto è governato da autorità ad interim. Negli ultimi mesi il giudiziario non ha quindi dovuto rispondere a istituzioni democraticamente elette. Non resta che aspettare l’arrivo di Sisi. Solo un’analisi di lungo periodo ci dirà se il prossimo governo terrà dietro le sbarre i suoi oppositori più di quanto fecero i suoi predecessori. Nena News