Nel campo si cerca di ri-costruire e ri-produrre tutto ciò che esiste al di fuori: il teatro diviene luogo sperimentale d’incontro, di confronto e di creazione, ma anche momento di crescita personale
di Cecilia D’Abrosca
Roma, 6 maggio 2016, Nena News – L’intreccio tra arte e politica in alcuni contesti è un’evoluzione naturale. L’arte si fa metalinguaggio, e la politica adopera l’arte come sistema di input, come strumento formativo e linguaggio idoneo alla creazione di consapevolezza e coscienza critica. Questo è il Freedom Theatre di Jenin, città della Cisgiodarania, all’interno dei Territori Palestinesi Occupati. Sui resti delle macerie del campo e del suo precedente teatro, lo “Stone Theatre”, Juliano Mer-Khamis nel 2006 dà avvio al Freedom Theatre. Il padre di Juliano è palestinese, Saliba Khamis, sua madre, Arna Mer-KHamis, è ebrea israeliana. Juliano più volte affermerà di sentirsi fieramente “assieme ebreo e palestinese”. E’ il direttore del Freedom Theatre, nonchè attore, regista e attivista.
La città di Jenin ospita un campo di rifugiati palestinesi tra i più numerosi in Palestina, popolato da oltre 16.000 persone. Il teatro vive all’interno del campo ed è questa specificità a condizionarne, in modo irreversibile, la funzione, l’attività e la produzione.
Perché nasce un teatro all’interno di un campo palestinese? In quale concezione va letta la sua produzione artistica? Cosa significa fare teatro in Palestina? In quali forme la condizione quotidiana dei Territori Occupati penetra la modalità della performance, quale direzione le imprime? Chi sono gli attori del Freedom Theatre e che tipo di percorso compiono?
Va detto, in primo luogo, che un campo riproduce un microcosmo; si tratta di una piccola città nella città, munita di ciò che permette un’esistenza il più possibile vicina al limite della considerazione della dignità umana. Nel campo si cerca di ri-costruire e ri-produrre tutto ciò che esiste al di fuori, per questo motivo, è riservato anche uno spazio all’intrattenimento, al loisir, ma soprattutto, volendo contestualizzare la funzione e l’utilità dell’arte palestinese, il teatro diviene luogo sperimentale d’incontro, di confronto e di creazione, ma anche momento di crescita personale.
Il teatro di Jenin è un teatro che, sulla base delle teorizzazioni di Bertold Brecht, viene definito come teatro di sperimentazione, didattico ed epico, pur conservando le caratteristiche dei teatri delle civiltà orientali e mediorientali che, anche in tempi recenti, tengono gli spettacoli, così come nell’antichità, nei cortili dei templi e dei palazzi di governo, o in aree aperte, delimitate e contrassegnate da scarni elementi simbolico-scenografici (non mancando esempi di rappresentazione al chiuso, in ampi spazi quadrangolari, divisi in parti destinate all’azione e al pubblico). Il teatro prospettato da Brecht, opposto al teatro borghese “della chiacchiera”, è quello di “un teatro del gesto e dell’urlo”, che prescrive all’attore di rappresentare il personaggio come altro da sè, in seguito ad un effetto di straniamento.
Quanto al carattere didattico, rimanda ad un teatro semplice e povero nei mezzi che ha come fine l’insegnamento e lo scambio immediato tra attori e pubblico, rinunciando, però, ad assumere un tono imbonitorio o paternalistico. Infine vi è il carattere epico, che fa riferimento ad un teatro in cui sono presenti elementi narrativi associati alle rappresentazioni drammatiche, a loro volta accompagnate da didascalie dipinte o filmate. In sintesi siamo di fronte ad un teatro “antiromantico”, così come definito dallo stesso Bertold Brecht, che trova la sua espressione in un collettivo di attori-narratori che mirano all’osservazione critica del comportamento umano e della realtà politica e sociale circostante. Dunque, un teatro intimamente connesso alla contemporaneità.
Spostandoci a Jenin, in Cisgiordania, ecco che il senso del Freedom Theatre, del Teatro della Libertà, appare più chiaro e articolato. Lo spirito del FT è di creare un’alternativa: ad una società oppressa e culturalmente isolata, i continuatori dell’opera di Juliano (ucciso il 4 aprile 2011) orientati dal suo insegnamento e dalla sua visione, mostrano la volontà di incidere su ogni età, formare persone in grado di sviluppare una coscienza critica, dunque consapevoli della dimensione nella quale vivono, che siano capaci, “semmai un giorno la Palestina sarà libera”, di costruire una società fondata sull’uguaglianza e sul riconoscimento e sulla tutela dei diritti civili e politici: “Un posto nuovo dove gli esseri umani possano tirare fuori quanto di meglio abbiano dentro di sè”.
Il percorso promosso dal FT segue una linea educativa e formativa, ma allo stesso tempo permette ad artisti ed aspiranti tali, di acquisire un elevato livello di professionalità e mettere alla prova la propria capacità artistica (grazie ad esempio alla presenza della “Film School” nel campo) e renderla nota al pubblico attraverso esibizioni e partecipazioni a diversi festival al di là del Medio Oriente. Ad esempio, il 29 maggio a Parigi al Cinema Luminor Hotel de Ville, sarà proiettato il documentario “Journey of a Freedom Fighter” in concorso al Festival Cinè-Palestine (FCP), che si terrà dal 29 al 7 giugno, al quale interverrà uno degli attori del FT, Ahmad Al Rokh.
Il progetto teatrale globale da un lato prevede al suo interno un percorso completo di studio della disciplina, volto a formare potenziali talenti e dall’altro contempla una visione politico-ideologica che ricalca gli ideali e le pratiche del suo fondatore; siamo di fronte ad un teatro che opera una forma di resistenza non violenta, di tipo culturale, poiché poggia e si “serve” della cultura popolare, ma in particolare dell’arte teatrale e del suo linguaggio, per agire e trasformare, partendo dal basso, dai più piccoli, la situazione in cui versano i palestinesi, richiamando l’attenzione su di loro e proseguendo la ricerca di uno stile in linea con un teatro stabile.
Ancora una volta ad essere centrale è l’arte ed il suo messaggio di spinta al cambiamento dello status quo. L’arte intende trasformare la realtà, stimolare il pensiero critico operando nel concreto, salvando coloro che sono rimasti orfani e quelli che ritengono l’arte una chiave diretta dell’emancipazione. È un’arte strumentale e funzionale quella di Jenin, forma di resistenza e denuncia pacifica attuata dai palestinesi che vivono nel campo.
Attualmente il teatro trae ispirazione da un progetto intitolato “Care and Learning”, in cui il teatro e l’arte sono utilizzati a scopo “terapeutico”, per canalizzare la paura cronica, la depressione e lo stress post-traumatico di cui sono vittime gli abitanti del campo, in particolare i bambini del campo rimasti orfani.
Un’altra figura ispiratrice del FT è stata fino agli anni Novanta Arna Mer-Khamis, madre di Juliano, la cui energia ed umanità, la passione per la difesa e l’educazione dei bambini palestinesi l’ha vista protagonista di campagne di lotta alla libertà e ai diritti umani. Il suo impegno civile e il suo attivismo pacifico le valse il “Right Livelihood Award” nel 1993, il Premio Nobel alternativo, un anno prima della sua morte. Nena News