Visita al campo di Al Fawaar, ad Hebron, accompagnati da Ala’a, giovane profugo: diciotto anni trascorsi in una casa da 10 dieci metri quadri, tra mancanza d’acqua, raid dei soldati, arresti.
Testo e foto di Fiore Orlandi
Foto 1: Appena fuori dal campo una torre di guardia dell’occupazione israeliana. I militari di turno con un gesto della mano ci chiedono di fermare l’auto per un controllo dei documenti e per avere spiegazioni riguardo la nostra visita al campo. Rispondiamo che stiamo andando a trovare degli amici.
Foto 2: Entriamo nel campo con la macchina ed Ala’a parcheggia davanti casa sua. Quella minuscola baracca, al piano terra, che ha ospitato la sua famiglia per 18 anni. Si gira e con un sorriso stretto fra i denti dice che ora lui vive in una casa normale in un villaggio normale. Ha la sua camera, lavora, vive, respira, ha ricominciato a sperare.
Foto 3-4-5: I bambini in giro per le strette vie del campo iniziano a seguirci e a chiederci cosa stiamo facendo lì. Sorridono sempre, tutti. Loro sono il futuro della Palestina. Loro che da piccoli fanno cose da grandi.
Foto 6: Insegnano qualcosa ai più grandi con i loro sorrisi. Di età compresa fra 0 e 14 anni ad Al Fawaar, come in tutti i campi profughi della Cisgiordania, costituiscono quasi il 50% della popolazione. Alta è la percentuale di bambini analfabeti, pochi hanno la fortuna di iniziare e finire le scuole, molti si fermano alla formazione elementare e solo una bassa percentuale ha la possibilità di proseguire gli studi alle scuole superiori.
Foto 7: La popolazione compresa fra i 15 e i 64 anni rappresenta circa il 48% del totale e solo una bassissima percentuale è composta da uomini e donne di età superiore ai 65 anni. Per questi ultimi in particolare, le condizioni di salute sono precarie. All’interno del campo sono presenti istituzioni sanitarie gestite dall’Unrwa o da privati, ma non garantiscono un servizio permanente né continuo. Mancano ambulanze, attrezzature mediche e i servizi sanitari essenziali. I rifugiati sono dunque costretti a raggiungere le città di Yatta o Hebron per poter usufruire dell’assistenza necessaria in casi d’emergenza.
Foto 8: Costruzioni di palazzine su più piani dalle quali si ricavano un numero di abitazioni che va oltre l’immaginazione. Le case sono piccolissime e sono una attaccata all’altra. Le vie che le separano sono così strette da non poter essere attraversate con la macchina, ma solo a piedi o in bicicletta. La densità della popolazione è altissima e le condizioni di vita che ne conseguono sono naturalmente difficili.
Foto 9: Nei vicoli del campo spazzatura viene lasciata lì per giorni e l’aria che si respira talvolta è opprimente. I rifiuti vengono spesso bruciati lungo le strade appena fuori Al Fawaar poiché non esiste una raccolta costante e l’unica soluzione per i residenti, per non vivere tra l’immondizia, è bruciarla.
Foto 10: Il figlio del cugino di Ala’a che vive ancora nel campo. Un altro cugino, anche lui un rifugiato di Al Fawaar, ora si trova in prigione per la seconda volta. Si chiama Mohammad Abd al Jawwad Silmee, ha 16 anni ed è detenuto nel carcere di Ofer, condannato ad otto mesi di reclusione perché accusato di aver aggredito i militari d’occupazione israeliana durante degli scontri. La sua famiglia non ha notizia di lui da due mesi.
Foto 11: Il campo dall’alto.
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Hebron, 12 marzo 2014, Nena News – Andiamo in visita ad campo profughi di Al Fawaar con Ala’a Abd Aljabar Silmee, 20 anni. Lui, che ha vissuto fino a due anni fa ad Al Fawaar, mentre camminiamo a piedi nelle strettissime vie che caratterizzano ogni campo profughi della Cisgiordania, tra spazzatura e bambini sorridenti che ci seguono ad ogni passo, ci racconta la storia dei suoi 18 anni trascorsi lì.
Racconta con occhi stanchi e tristi – come stanca e triste era la sua famiglia composta da nove persone – di aver vissuto dentro una casa di appena 10 metri quadri. “La vita nei campi è davvero dura. È difficile vivere in queste condizioni. La maggior parte dei giorni mancano l’elettricità e l’acqua, le strade sono chiuse e nessuno è libero di muoversi per andare a scuola o al lavoro. I soldati entrano quasi ogni notte ed arrestano giovani e giovanissimi, distruggono le nostre case portando via con sé la speranza di una vita giusta anche per noi”, racconta Ala’a mentre si guarda intorno e riconosce i suoi vicini di casa, i figli di amici o parenti, si salutano.
Poi continuiamo a camminare e mi spiega che tutti, come lui stesso ha vissuto, si trovano costretti a condividere ogni attimo della propria vita, senza alternative, in spazi ristrettissimi. A tratti Ala’a non parla e io non forzo la mano, perché non posso capire cosa prova a stare lì, a ricordare. Poi riprende il discorso da solo: “Mio padre viveva in Israele. Mia madre invece viveva con noi e faceva l’insegnante. Ma ogni mattina ci svegliavamo senza sapere se saremo potuti andare a scuola, noi per studiare e lei a lavorare”. Nena News