Per lo scrittore iracheno, l’orrore di essere costretti a vivere lontani dal proprio Paese risiede nello sradicamento dell’individuo in un luogo «dove né il cielo è quello primordiale, né gli antenati sono gli antenati». «Devo scrivere in arabo perché ogni lingua ha la sua storia e l’arabo è la mia – afferma – La considero la lingua più bella di tutte perché è un idioma molto libero»
di Cecilia D’Abrosca
Roma, 16 gennaio 2017, Nena News – Il tratto peculiare della letteratura araba risiede nell’aderenza alla vita sociale e politica della collettività, nondimeno, alle vicende di autori e autrici e al loro impegno civile, che si esplica nella mobilitazione e nella scrittura di opere narrative e poetiche, intese come depositarie di sentimenti, emozioni e pensieri. La scrittura è strumento che risveglia la coscienza e la possibilità di analisi. Mentre il genere letterario plasma eventi e imprime significato alle passioni umane e ai comportamenti, facilitando l’identificazione da parte del lettore e configurando un campo privilegiato che consente ad ogni autore di confrontarsi con la propria biografia personale.
Avvicinarsi alla letteratura araba, oggi, implica il doversi misurare con spaccati dolorosi che hanno forte risonanza nella sfera privata; alcuni di questi appaiono simili nel loro significato originario, ma quanto alla forma stilistica e alla scelta comunicativa, ciascun autore ne adotta una come riflesso personale di sé. Il livello della condizione umana, i problemi sociali e lo stato delle questioni politiche, sono una risposta alla società. Lo stesso dicasi per l’universo culturale di riferimento e la modalità di espressione delle emozioni: il sistema di valori è diverso da paese a paese e, ciò determina un diverso “sentire” (in termini di azione e reazione), che si lega ad una concezione delle arti e delle lettere (letteratura e poesia, in primis), del tutto personale.
Volendo considerare il tema dell’esilio, ad esempio e, il modo in cui ne parlano i poeti, emerge che, i criteri della sua trattazione, sia in prosa che in letteratura, sono condizionati e, dettati, dalla presenza o meno dello scrittore nel luogo (d’esilio) da cui scrive e racconta. Non sarà la stessa cosa per il lettore/lettrice, se il poeta scrive “dell’esilio” o scrive “in esilio”.
Il caso è quello di Saadi Youssef, scrittore nato in Iraq, tra i luminari della cultura più amati dal pubblico e dalla critica internazionale. Il problema legato alla polisemia della parola araba, riguarda le insidie che nasconde il lavoro di traduzione dall’arabo ad una lingua europea. Al momento, ciascun autore lavora in collaborazione con un traduttore ufficiale. Il principale timore di chi fa poesia in lingua araba è curare l’aspetto linguistico per evitare alterazioni di significato ai danni della lingua originale, in tal senso, mortificata. Saadi Youssef parla dell’arabo come, la “lingua che crea altra lingua, che s’innova a partire da una parola, il cui significato può essere esteso o rinforzato”, aspetto, questo, ben noto alla comunità di parlanti. Ogni madrelingua araba conosce le potenzialità del suo linguaggio e le difficoltà di trasferirle in un’altra lingua.
Saadi Youssef, esilio e arte
Saadi Youssef dichiara che, l’orrore dell’esilio risiede nello sradicamento dell’individuo da un punto d’intersezione e nella sua collocazione dove, né il cielo è quello primordiale, né gli antenati sono gli antenati; dove non ci sono case, non ci sono ricordi, non ci sono i giochi d’infanzia. Egli scrive queste parole in occasione di un evento, il “Festival Internazionale di Letteratura” di New York, che si terrà il prossimo maggio. Saadi, nato a Basra nel 1934, vive in esilio a Londra da moltissimi anni, dopo aver lasciato l’Iraq negli anni Cinquanta.
Ció che appartiene ad ogni persona, è il tempo dell’infanzia. I ricordi sono i semi dai quali un artista può attingere nel corso dell’intera vita, quando non ha nient’altro. Sono la fonte primaria d’ispirazione alla quale un uomo o una donna, impegnati a creare, devono fare riferimento. Quando fa richiamo ai “semi dell’infanzia”, dunque ai ricordi, Saadi Youssef ripercorre i fiumi del suo paese, le giornate di pesca, le uscite in canoa, il periodo di raccolta dell’uva con la famiglia e altre cose simili.
Capisce da giovane di voler fare il poeta. Inizia a studiare il sistema metrico nella poesia araba e la letteratura. Parlando della sua lingua dice, che non potrebbe usarne un’altra, “È impossibile, io devo scrivere in arabo perché ogni lingua ha la sua storia e l’arabo è la mia. Considero l’arabo la lingua più bella di tutte perché è un idioma molto libero. Intendo dire che, dà la facoltà di creare nuove parole. È un linguaggio aperto che si presta ad essere rinnovato”. È essenziale, a tale processo creativo, avere una formazione classica, in modo da riuscire a catturare le sfumature lessicali. La capacità di vedere oltre il lemma, agevola la libertà di espressione poetica, ma occorre lavorare “all’interno del linguaggio” e da lì, creare un insieme linguistico nuovo.
Nei suoi testi, ricorre l’esempio del suono delle campane di una chiesa, e afferma: “Se si considera la forma del passato remoto in arabo, per indicare il suono delle campane, si dirà – le campane suonarono- io posso estendere, attraverso la lingua, il tempo di cui ha bisogno una campana per produrre il suono. Invece di dire, “suonato”, io posso usare l’arabo per ricreare un diverso mondo verbale (e di suoni), che mostri il modo più esteso per una campana di generare il suono, ovvero, come il suono muove attraverso l’aria. Creare nuovi mondi è un bisogno, ed il lettore arabo, in particolare, lo comprenderà.
Il più delle volte scrive le sue poesie solo in arabo, senza tradurle in inglese, per preservarne l’immediatezza e la naturalezza. Della traduzione delle sue opere si occupa Khaled Mattawa, esperto conoscitore delle lingue europee. È molto difficile catturare la musicalità della poesia araba, è complicato accostare l’inglese, all’arabo, perché poggiano su sistemi linguistici opposti. La musica della poesia suona diversa e si corre il rischio di avere due opere, anziché una, che hanno medesimo tono e sentimento. Tra le sue raccolte più note, vi è, Without an Alphabet, Without A Face [Graywolf Press], tradotta da Khaled Mattawa.
Saadi Youssef scrive come se non avesse mai lasciato l’Iraq. La sua esperienza di esilio e di ritorno inizia negli anni Cinquanta con un viaggio a Mosca, poiché forte era il suo interesse per le posizioni della sinistra. Al suo ritorno in Iraq, il Paese era diventato una Repubblica, nel 1959. A seguito del Ba’athist coup d’etat nel 1963, viene imprigionato per circa un anno e mezzo e, dopo la sua liberazione si trasferisce in Algeria e aiuta il Paese a conquistare l’indipendenza dalla Francia. Solo negli anni Settanta (nel 1972, quando l’ordine statale in Iraq cambia), viene invitato a ritornare e lavorerà presso il Ministero della Cultura fino al 1978, anno in cui Saddam prende il potere. Si trasferisce prima in Siria, poi in Libano e a Cipro.
Ma è a Londra che trova il suo equilibrio, scegliendo tra due opzioni: allargare le proprie radici, attraverso un attaccamento alla vita reale che sta vivendo in questo o in un altro luogo, contemplando in essa – la Natura, la Cultura, gli Esseri Umani, o l’altra opzione è quella di vivere come un esiliato. Saadi Youssef sceglie la prima via e si mette in gioco: è la soluzione che lo ha salvato, assieme al rispetto delle persone e delle altre culture, che gli hanno donato l’equilibrio ad affrontare il suo percorso di vita in esilio. Nena News