Damasco ha adottato solo qualche giorno fa alcune misure contro la diffusione del Covid-19. Voci di casi positivi in varie città non annunciati dalla autorità. Nel paese sono presenti combattenti e consiglieri militari dell’Iran, uno dei principali focolai dell’infezione
di Michele Giorgio il Manifesto
Roma, 18 marzo 2020, Nena News – La Siria in guerra da nove anni, presto potrebbe essere costretta a combattere un’altra guerra, contro il coronavirus, altrettanto pericolosa e letale per i suoi abitanti. Una prospettiva inquietante se si tiene conto del sistema sanitario nazionale gravemente indebolito e impoverito dal conflitto. Damasco tuttavia continua a smentire la presenza del virus in Siria. Sabato scorso il ministro della sanità, Nizar Yazigi, ha detto che i test eseguiti su alcuni casi sospetti hanno dato esito negativo e che 16 passeggeri e membri dell’equipaggio di un volo proveniente dall’Iraq sono stati messi in quarantena. Ma i contagi ci sono, stando a voci che circolano nella capitale e a quanto si legge sui social, a Tartous, Homs, Latakia e a Damasco.
Solo negli ultimi giorni il governo siriano ha adottato misure preventive. Ha rinviato a fine maggio le elezioni previste il 13 aprile e ha chiuso le scuole per due settimane. Provvedimenti che hanno spinto migliaia di famiglie nella capitale e in altre città a procurarsi generi di prima necessità in vista di provvedimenti più restrittivi. L’auspicio è che il coronavirus sia davvero rimasto fermo alle porte del paese come dice il governo. Ma è arduo crederlo. Soprattutto se si considera la presenza in Siria di almeno 50mila combattenti e consiglieri militari giunti dall’Iran – terzo focolaio mondiale dell’infezione – dall’Afghanistan, dal Pakistan, dal Libano, dall’Iraq in appoggio all’esercito governativo impegnato contro le milizie jihadiste e quelle del cosiddetto “Esercito nazionale siriano” pagato e addestrato da Ankara. I collegamenti aerei tra Damasco e Tehran sono stati ridotti ma non bloccati e prosegue l’avvicendamento in Siria di ufficiali e militari delle Guardia Rivoluzionaria iraniana. Senza contare che sino a poche settimane fa è andato avanti il flusso di pellegrini sciiti iraniani in visita ai luoghi santi in Siria.
«Le autorità temono che l’annuncio di casi positivi possa generare panico e caos in una situazione già tanto complicata, però qui sono tutti sicuri della presenza di contagiati dal coronavirus» ci spiegava ieri una fonte siriana che ha chiesto di rimanere anonima. «A preoccupare più di ogni altra cosa è l’arrivo di migliaia di ammalati negli ospedali che già non riescono a far fronte alle conseguenze della guerra». Inoltre Damasco, ha aggiunto la fonte, non può interrompere i collegamenti con l’alleato Iran che assieme alla Cina rifornisce la Siria sotto embargo da anni. Dalla Cina la Siria importa il 60% degli antibiotici e nei mesi scorsi a causa del coronavirus diversi produttori cinesi hanno cessato o ridotto le consegne. E al ministero della sanità siriano guardano con preoccupazione anche all’India che fornisce un ulteriore 30% di farmaci. L’Iran invece è fondamentale per le forniture di petrolio oltre che per l’aiuto finanziario che, secondo alcune stime, oscillerebbe intorno ai 15 miliardi di dollari all’anno. Aiuto che potrebbe ridursi sensibilmente per effetto del calo del prezzo del greggio che influirà parecchio sulle finanze di Tehran, già impegnata in una difficile opera di contenimento delle conseguenze dell’epidemia sulla sua economia in forte affanno per le sanzioni americane.
Un approccio diverso all’emergenza coronavirus è stato adottato dall’Amministrazione autonoma curda. Nel Rojava, nel nordest della Siria, sono state adottate misure restrittive anche se a breve termine: per quattro giorni sono state sospese le attività degli uffici pubblici, delle scuole e delle università. Ed è stato vietato l’ingresso nella regione ai non residenti. Misure preventive sono state decise anche dalle forze mercenarie alleate di Ankara nella provincia di Idlib fuori dal controllo Damasco e teatro del recente scontro tra Siria e Turchia. Anche in quei territori non si registrano casi positivi al coronarvirus. E poco o nulla si sa della situazione nei campi improvvisati dove vivono ammassati centinaia di migliaia di civili sfollati da Idlib. Qualche giorno fa Jan Egeland, segretario generale del Norwegian Refugee Council ha avvertito che il diffondersi del virus nei campi profughi, non solo quelli con rifugiati siriani, provocherà una catastrofe. Nena News