I palestinesi, fa capire Trump, devono realizzare che se non si piegheranno la loro realtà potrebbe persino peggiorare. Ma ogni volta che i palestinesi hanno cambiato il loro modo di vedere le cose la loro situazione si è aggravata. In qualsiasi modo la si guardi, da decenni lo Stato di Israele si espande a spese del possibile Stato di Palestina
di Marwan Bishara* – Al Jazeera
Traduzione di Elena Bellini
Da due anni a questa parte, l’amministrazione Trump sta lanciando un’offensiva diplomatica a tutto campo contro i palestinesi, mentre elabora un nuovo progetto per la soluzione del conflitto mediorientale. Ha dichiarato di avere un piano diverso da qualsiasi altro, ha sminuito – definendola “speculazione selvaggia -, ogni cosa detta al riguardo, e ha accusato i critici di aver dato un giudizio affrettato prima ancora di conoscere il piano.
In realtà, i palestinesi non conoscono il piano, ma hanno un’idea abbastanza precisa di ciò che questo comporterà. Hanno potuto osservare attentamente l’amministrazione Trump sputar fuori una politica dopo l’altra con il chiaro intento di umiliarli e sottometterli.
Trump: la gallina dalle uova d’oro di Israele
Nell’ultimo anno e mezzo, l’amministrazione del presidente USA Donald Trump ha fatto al governo di Benjamin Netanyahu un “regalo politico” dopo l’altro.
Nel dicembre 2017, la sua amministrazione ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e, in maggio 2018, vi ha spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv. Nel gennaio 2018, ha congelato ogni contributo all’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che ha il compito di sostenere milioni di palestinesi che vivono da rifugiati, e nel giugno dello stesso anno ha abbandonato il Consiglio ONU per i Diritti Umani, dopo averlo accusato di avere un pregiudizio contro Israele in considerazione delle sue politiche nella Palestina occupata. In settembre, l’amministrazione Trump ha chiuso l’ufficio di rappresentanza dell’OLP a Washington.
Nel frattempo, ha dato a Netanyahu carta bianca per l’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che il Dipartimento di Stato ha smesso di definire “occupata” nei documenti ufficiali, indicandola, invece, come “sotto il controllo israeliano”.
Infine, alla vigilia delle elezioni israeliane di quest’anno, il presidente Trump ha firmato una dichiarazione in cui si riconosce l’annessione israeliana delle Alture del Golan siriane, annessione precedentemente dichiarata “nulla” dall’amministrazione Reagan e dal Consiglio di Sicurezza ONU.
Cosa forse ancor più allarmante, l’amministrazione Trump ha spinto determinati Paesi arabi alla normalizzazione delle relazioni con Israele, senza che, da parte di Israele, vi sia stata alcuna concessione.
Queste politiche USA hanno incoraggiato Netanyahu, che sarà per la quinta volta primo ministro, a vantarsi di poter mantenere per sempre la sovranità israeliana su una “Gerusalemme unita”, “capitale eterna” di Israele, e a promettere solennemente che non cederà mai il controllo israeliano sui territori palestinesi a ovest del fiume Giordano. Si è anche impegnato ad annettere tutti gli insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania.
Dal canto loro, la leadership palestinese e i governanti arabi hanno fatto poco o niente, se non rilasciare qualche dichiarazione irrilevante.
Zeloti al cubo
Questi e altri cambiamenti della tradizionale politica estera statunitense in Medio Oriente hanno visto la luce grazie all’iniziativa dei tre maggiori consulenti di Trump sul Medio Oriente: suo genero Jared Kushner e quelli che erano i suoi avvocati a New York, Jason Greenblatt e David Friedman, che da anni promuovono attivamente le politiche a favore di Israele.
Questi tre fieri sionisti radicali hanno dimostrato chiaramente il proprio entusiasmo per gli insediamenti israeliani illegali nei territori palestinesi e il rifiuto di etichettare come “occupata” la Cisgiordania e Gerusalemme.
Ma il trio di Trump continua a sorprendere, e non in senso positivo. Kushner e soci sono così estremisti che, in confronto, Netanyahu sembra un moderato.
Fanno parte di un gruppo di estremisti sionisti americani che si oppose al processo di pace di Oslo negli anni ’90 e che, addirittura, paragonò i mediatori di pace israeliani ai collaborazionisti nazisti. Hanno liquidato i diritti nazionali e storici palestinesi e difeso le azioni di Israele come consacrate da Dio. Come i loro amici evangelici, credono che il loro capo Trump sia un unto del Signore destinato a prendersi cura di Israele, e pensano che la volontà divina, come da loro interpretata, possa sostituire quella della comunità internazionale.
L’anno scorso, Friedman, che è stato ambasciatore USA in Israele, ha twittato: “Più di 2000 anni fa, i Maccabei, patrioti ebrei, hanno conquistato Gerusalemme, purificato il Sacro Tempio e l’hanno riconsacrato come casa della nazione ebraica. L’ONU non può cancellare questi fatti con un voto: Gerusalemme è la capitale ancestrale e attuale di Israele”.
Il fatto che il trio di Trump sfoggi di un tale super-fondamentalismo religioso, mentre insiste in modo poco credibile di avere a cuore l’interesse dei palestinesi, dovrebbe preoccupare tutti, in Medio Oriente e non solo.
Trame e intrallazzi
Mentre Kushner è rimasto sostanzialmente silenzioso sul nuovo accordo, Friedman e Greenblatt sono stati molto loquaci relativamente ai suoi pregi e alle implicazioni per i palestinesi.
Con impareggiabile chutzpah (“impertinenza” in ebraico, ndt.), entrambi gli avvocati hanno ”trollato” (provocato attraverso strumenti mediatici, ndt.) i leader palestinesi e li hanno messi in imbarazzo accusandoli di fregarsene del popolo palestinese. Hanno anche accusato ingiustamente i palestinesi di “lodare” il terrore e nascondere terroristi e, nello stesso tempo, hanno difeso strenuamente Israele contro qualsiasi critica – incluse quelle provenienti dai media statunitensi – relativa alla sua violenza e oppressione.
Con ogni probabilità, il trio si è affidato alla tristemente nota guida mediatica “Progetto Israele” per “condottieri in prima linea nella battaglia mediatica per Israele”, con l’obiettivo di mettere in imbarazzo l’Autorità Palestinese a guida Abbas e tifare per il governo Netanyahu. Fanno largo uso dei trucchetti delle pubbliche relazioni, come: “Noi siamo pronti ad aiutare i palestinesi, ma lo è anche la loro leadership?”
Tutto ciò spinge a chiedersi: perché mai i palestinesi dovrebbero prendere in considerazione il piano USA, quando Kushner e soci invocano l’espropriazione della loro terra, del loro capitale e delle loro risorse, tutto in nome del realismo e della pace? Perché dovrebbero pensarla diversamente, quando due dei principali esperti pro-Israele ed ex consulenti alla Casa Bianca ritengono che il piano sia semplicemente “molto pretenzioso” e votato al fallimento?
Bene, il trio di Trump ribadisce che si sta lavorando a qualcosa di totalmente diverso rispetto alle precedenti iniziative USA, come Kushner ha dichiarato al Time 100 Summit questa settimana – qualcosa basato sulla realtà, non sulla fantasia – e quanto prima i palestinesi lo accetteranno, tanto più rapidamente le loro vite miglioreranno. Ma se le iniziative precedenti sono fallite perché erano sbilanciate in favore di Israele, come potrebbe questa, ancor più sbilanciata in favore di Israele, portare alla pace? Non c’è bisogno di dirlo, nessuna nazione occupata o colonizzata ha accolto, né mai lo farà, un consiglio basato esclusivamente sulla logica di una potenza canaglia.
Ma se l’amministrazione USA vuole davvero che i palestinesi seguano il piano, perché continua a umiliarli in pubblico e in privato? Dopotutto, qualsiasi nuovo accordo, come qualsiasi vecchio accordo, dovrebbe prevedere l’accettazione di una ripartizione e/o condivisione della terra.
“L‘arte dell’umiliazione”
Nel tentativo di offrire la propria interpretazione del vecchio adagio “Non puoi fare una frittata senza rompere qualche uovo”, il signor Kushner ha scritto, in una e-mail di gennaio, che “Il nostro obiettivo non può essere quello di mantenere la situazione stabile, così com’è; il nostro obiettivo dev’essere quello di renderla decisamente MIGLIORE! A volte bisogna strategicamente rischiare di rompere le cose per ottenere un risultato”.
Ma rompere cosa, esattamente?
Sembra che il principale obiettivo di Kushner sia spezzare lo spirito dei palestinesi e le loro speranze di ottenere uno Stato sovrano sui territori occupati nel ‘67, per costringerli ad accontentarsi dell’autonomia in alcune parti di questi territori, con una possibilità futura di uno pseudo Stato “Prima Gaza”, condizionato dalla buona condotta.
Tutto ciò mi fa venire in mente una vecchia storiella che Kushner sicuramente conosce, una parabola ebraica che racconta di un pover’uomo che si lamenta con il suo rabbino del fatto di dover vivere con la sua grande famiglia in una casa minuscola. Il rabbino gli dice di portare in casa anche tutti i suoi animali. Per quanto stupito, l’uomo fa ciò che gli è stato detto. Il giorno dopo, corre di nuovo dal rabbino e si lamenta che la situazione è peggiorata. Il rabbino, allora, gli suggerisce di eliminare i polli. Leggermente sollevato, ma ancora infelice del suo stile di vita, l’uomo torna dal rabbino, che gli consiglia di eliminare un altro animale. Questo viavai si ripete finché l’uomo non elimina tutti gli animali. Il giorno dopo, torna dal rabbino con un grande sorriso. “Oh Rabbino! – dice – Stiamo così bene adesso. La casa è così tranquilla, e abbiamo spazio in abbondanza!”.
La morale della storia è che, se si cambia il modo di vedere le cose, le cose cambiano. In questo senso, il trio di Trump sta cercando di costringere i palestinesi a capire che la loro realtà non è poi così male, se paragonata a quanto peggiore potrebbe diventare.
Ma la verità è che, cambiando la prospettiva, non si cambia la realtà. Infatti, ogni volta che i palestinesi hanno cambiato il loro modo di vedere le cose, su insistenza degli USA, nell’ultimo quarto di secolo, la loro situazione è solo peggiorata. In qualsiasi modo la si guardi, da decenni lo Stato di Israele si espande a spese della Palestina.
È ora che una nuova generazione di leader palestinesi rimodelli radicalmente la realtà, rovesciando o superando le politiche passate e attuali degli USA e di Israele.
*Marwan Bishara è analista politico senior a Al Jazeera.