Nata come fabbrica di cannoni a fine Ottocento, dopo la Seconda Guerra Mondiale la Zastava cominciò a produrre automobili e per decenni rappresentò il fiore all’occhiello del settore industriale jugoslavo. Almeno fino alla guerra degli anni Novanta
di Marco Siragusa
Il periodo d’oro
Roma,1 maggio 2021, Nena News – La Torino jugoslava. Così potrebbe esser definita Kragujevac, città del distretto di Sumadjia nella Serbia centrale. Una città il cui destino, nell’ultimo secolo, è andato di pari passo con quello della fabbrica più famosa e grande dell’intera Jugoslavia: la Zastava (Bandiera). E per decenni, in effetti, la fabbrica rappresentò una delle bandiere della Federazione, il fiore all’occhiello del sistema industriale jugoslavo e del modello di autogestione tipico di quella esperienza.
La fabbrica nasce nel 1851 per la produzione di cannoni da utilizzare contro l’occupante ottomano che controllava gran parte del paese, compresa la capitale Belgrado. Le rivolte serbe contro la Sublime Porta della prima metà dell’Ottocento non avevano ottenuto il risultato sperato. Per avere qualche possibilità di successo era necessario organizzare un esercito ben attrezzato. Così, l’allora principe Milos Obrenovic decise che la produzione di cannoni dovesse avvenire a Kragujevac, già capitale del Regno di Serbia tra il 1818 e il 1839. Nasce così la Zastava.
La sua fortuna cominciò però solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. La nuova dirigenza socialista, impegnata nella ricostruzione post bellica e nell’edificazione della “via jugoslava al socialismo”, decise di trasformare la fabbrica nel più importante polo produttivo di tutto il paese e di rinominarla Crvena Zastava (Bandiera rossa). Nel giugno 1950 l’Assemblea popolare federale varò la cosiddetta legge sull’autogestione con l’obiettivo di trasferire la proprietà dei mezzi di produzione dallo Stato ai produttori, i lavoratori stessi. Tre anni dopo, nel 1953, gli operai della Zastava decisero, tramite referendum, di avviare la produzione di automobili. Un anno dopo firmò un accordo con la Fiat, con cui l’azienda italiana permetteva a quella jugoslava di produrre, dietro licenza, i modelli italiani con il proprio marchio. Nel 1956 la Zastava cominciò così a produrre la 600 B, identica alla Fiat 600 già presente sul mercato italiano. La Zastava di Kragujevac incarnava alla perfezione il sistema voluto dal Maresciallo Josip Broz Tito e dai suoi compagni. Unica azienda produttrice di tutta la Federazione, la fabbrica era legata a tante altre aziende diffuse in tutto il paese come la Jugoplastik di Spalato.
Questo sistema, da un lato rendeva più dispendiosa l’intera filiera produttiva, dall’altro garantiva la partecipazione di tutte le Repubbliche allo sforzo industriale, distribuendo in tal modo i benefici a tutta la Federazione. Nonostante ciò, furono migliaia i cittadini che dalle zone più povere del Sud, soprattutto dal Kosovo, si spostarono nella città serba per cercare lavoro. In quegli anni Kragujevac crebbe parallelamente alla sua industria. Se nel 1953 gli abitanti della città erano circa 48 mila, vent’anni dopo, nel 1971, la popolazione era quasi raddoppiata toccando a contare oltre 93 mila abitanti.
I primi grandi successi arrivarono già nei primi anni Sessanta con la produzione del modello Zastava 750, anche questa identica alla Fiat 750. La nuova auto divenne presto il simbolo del boom economico del dopoguerra riuscendo a competere con la più famosa Trabant prodotta nella Germania dell’Est. La svolta definitiva si ebbe nei primi anni Ottanta, proprio mentre in Jugoslavia cominciavano a diffondersi le prime idee nazionaliste e la crisi economica colpiva il paese. Nel 1981, la Fiat aveva deciso di non produrre il modello che avrebbe dovuto sostituire la 127 perché considerato già obsoleto. Diede così il progetto alla Zastava che decise di puntare tutto nella produzione della Yugo, la macchina più famosa di tutta la storia jugoslava. Nonostante le scarse performance, la Yugo aveva due punti di forza non indifferenti: prezzo basso e consumi limitati. Il suo successo fu immenso tanto da spingere l’investitore statunitense Malcolm Bricklin a importare il modello negli Stati Uniti. Tra il 1985 e il 1991 furono circa 150 mila le Yugo vendute negli Usa. Alla fine del decennio, quando il paese si avviava ormai verso una violenta dissoluzione, la Zastava contava circa 45 mila operai mentre Kragujevac aveva raggiunto ormai i 150 mila abitanti.
Nei decenni, le auto jugoslave vennero esportate in un tutto il mondo e soprattutto nei paesi poveri come Indonesia, Libano, Egitto, Libia, Pakistan, con cui Tito diede vita al Movimento dei Paesi non allineati nel 1961. Nel periodo di massimo splendore, la Zastava di Kragujevac era stata capace di produrre 186 mila vetture l’anno, con il modello 750 che sfiorò il milione di esemplari.
L’inizio della fine
Lo scoppio della guerra nel 1991 e il protrarsi dei conflitti per tutto il decennio segnarono la fine del settore automobilistico jugoslavo e, di conseguenza, della Zastava che però continuava a produrre armi per l’esercito. La guerra provocò il progressivo ridimensionamento dell’impianto di Kragujevac anche a causa dei mancati rifornimenti della componentistica prodotta nelle altre Repubbliche. Improvvisamente, l’azienda si ritrovò costretta a ricostruire da zero la filiera produttiva ma con investimenti pubblici insufficienti allo sforzo, anche a causa dell’embargo imposto dalla comunità internazionale alla Serbia.
La situazione non migliorò neppure dopo la fine della guerra nel 1995. Quattro anni dopo, durante la pasqua del 1999, l’impianto di Kragujevac fu infatti oggetto di pesanti bombardamenti da parte della NATO, intervenuta per fermare il conflitto in Kosovo. L’impianto venne quasi completamente distrutto e con esso tutta la tecnologia utilizzata. A nulla valsero le azioni di autodifesa di centinaia di operai che fecero da scudi umani per impedire che i missili distruggessero il loro posto di lavoro. Per questo furono persino accusati dalla stampa occidentale di esser stati pagati dal regime di Milošević.
Furono proprio i lavoratori e le lavoratrici a permettere alla fabbrica di riprendere la produzione dopo i bombardamenti, seppur a livello infinitamente più bassi rispetto ai decenni precedenti. Furono gli stessi operai a ricostruire l’impianto, sostenuti anche dalle campagne di solidarietà avviate in Italia dai sindacati, sia quelli confederali che quelli di base. Il futuro dell’azienda era però ormai segnato e con esso la vita di chi ci lavorava.
La Zastava post jugoslava
Finita, nell’ottobre 2000, l’era Milošević iniziò per il paese la fase più delicata della transizione dal socialismo. Tutte le più importanti aziende, che non erano ancora state del tutto privatizzate durante gli anni Novanta, furono svendute agli investitori stranieri. Tra queste anche la Zastava che venne spacchettata in base al settore di competenza. Quelli più remunerativi e con un alto livello di internazionalizzazione furono privatizzati, gli altri vennero chiusi e i debiti accollati allo Stato. Nel 2001 il numero dei lavoratori direttamente coinvolti nella produzione di automobili era sceso a poco più di 4 mila, molti dei quali però non svolgevano nessun lavoro concreto.
Il cambio di direzione della nuova classe dirigente si manifestò con la decisione, nel 2002, di produrre armi per la NATO. La stessa organizzazione che appena tre anni prima aveva definitivamente distrutto con le sue bombe qualsiasi possibilità di ripresa del settore automobilistico. Nel 2005, proprio mentre la Fiat metteva in cassa integrazione 5 mila lavoratori dello stabilimento di Melfi, l’azienda torinese e Zastava Automobili firmavano un nuovo accordo per la produzione a Kragujvac della Punto, lo stesso modello prodotto a Melfi. L’accordo prevedeva la possibilità di vendere il modello con il marchio Zastava 10, la cancellazione del 72% del debito verso la Fiat e il pagamento dei restanti 11,5 milioni di euro entro il 2006. Il mancato sostegno dello Stato serbo al settore automobilistico costrinse la Zastava a reperire i soldi attraverso la vendita di partecipazioni o la privatizzazione di alcuni settori specifici.
Il passo decisivo verso la scomparsa dello storico marchio avvenne nel dicembre 2007 con la decisione dell’allora ministro serbo dell’economia e dello sviluppo regionale Mlađan Dinkić di concludere definitivamente, ed entro tre mesi, il processo di privatizzazione dell’azienda.
Cosa che avviene nell’aprile 2008 con l’acquisto da parte di Fiat del 70% della Zastava Automobili con la promessa di un investimento di 700 milioni di euro. Secondo l’accordo, il restante 30% sarebbe rimasto nelle mani dello Stato serbo che avrebbe dovuto contribuire alla modernizzazione dell’impianto con 100 milioni di euro, poi saliti a 300 milioni. L’intesa risultò particolarmente favorevole alla Fiat che poteva così delocalizzare la produzione in un paese in cui i salari erano molto più bassi non solo dell’Italia ma anche della Polonia, altro paese coinvolto dalle operazioni della famiglia Agnelli. In più, alla Fiat veniva riconosciuto l’esenzione dall’imposta sul reddito dei dipendenti, dai contributi previdenziali, dall’imposta sui profitti per 10 anni e dalle tasse sulla proprietà del terreno della fabbrica.
Le cose in questi anni, però, non sono migliorate per i lavoratori. Nel 2016 FCA Srbija decise di licenziare circa il 30% di tutta la forza lavoro coinvolta che, al tempo, contava poco più di 3 mila unità. Il 2017 è stato, invece, l’anno delle grandi proteste operaie. Il 27 giugno iniziò infatti uno sciopero durato oltre tre settimane che vide coinvolto il 90% dei lavoratori. Tra le richieste l’aumento del salario (pari a 315 euro mensili), il pagamento degli straordinari, la fine dei licenziamenti, il pagamento dell’indennità per il lavoro notturno e una più ampia riorganizzazione dei carichi di lavoro. La Fiat rispose inizialmente con il rifiuto di avviare qualsiasi trattativa, nonostante la legge glielo imponesse, fino a quando i lavoratori avessero mantenuto lo sciopero.
La stessa prima ministro Ana Brnabić aveva minacciato i lavoratori invitandoli a porre fine a uno sciopero capace di mettere in pericolo il principale esportatore del paese e persino l’intera economia serba. Dopo quasi un mese, i sindacati decisero di interrompere l’astensione del lavoro per dare avvio alle trattative che si conclusero con un aumento salariale del 10%.
Altri scioperi contro i carichi di lavoro e i bassi stipendi sono stati convocati nel 2019 dai lavoratori della Fiat Plastik, azienda dell’indotto che produce i paraurti della 500L. L’ultimo sciopero è stato convocato lo scorso 17 febbraio contro la riduzione del salario imposto dall’azienda.
Sono ormai lontani i tempi in cui la Zastava garantiva ottimi livelli occupazionali, salari dignitosi e carichi di lavoro adeguati. La fine del socialismo ha rappresentato, soprattutto per i lavoratori del settore automobilistico serbo, lo smantellamento dei propri diritti e il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Anche per questo, gli operai e le operaie di FCA Srbija ogni 1° maggio scendono in piazza nella capitale Belgrado. Nena News