Un nuovo impianto di desalinizzazione è stato inaugurato nei giorni scorsi, ma la crisi idrica non dà segni di cedimento e continua a colpire le famiglie palestinesi
di Rosa Schiano
Roma, 31 gennaio 2017, Nena News - Salata – come arrivata direttamente dal mare – densa, contaminata. L’acqua dai rubinetti delle case di Gaza, soprattutto in quelle lungo la costa, continua ad essere inadatta al consumo umano. Gli impianti di desalinizzazione esistenti non sono in grado di alleviare una crisi idrica allarmante. L’ultimo, del valore di dieci milioni di euro, finanziato dalla UE ed inaugurato il 19 gennaio insieme alla Unicef, sarebbe in grado di produrre – riporta il sito dell’agenzia delle UN – 6.000 metri cubi di acqua potabile al giorno da destinare a circa 75.000 palestinesi nel sud della Striscia, dei quali 35.000 nell’area di Khan Younis e circa 40.000 a Rafah.
L’Unione Europea avrebbe già garantito un ulteriore finanziamento di dieci milioni di euro per raddoppiare le capacità dell’impianto. I lavori della seconda fase dovranno permettere all’impianto di produrre un totale di 12.000 m3 di acqua potabile al giorno, da destinare a circa 150.000 palestinesi. Il progetto, iniziato circa tre anni fa, è stato condotto in collaborazione con l’Autorità palestinese dell’acqua e con l’azienda di servizi idrici dei comuni costieri di Gaza (Gaza’s Coastal Municipalities Water Utility). Le frequenti interruzioni di energia elettrica però, potrebbero compromettere il buon funzionamento dell’impianto. Poiché almeno il 95% delle acque estratte dalla falda acquifera di Gaza non sono idonee al consumo, la desalinizzazione viene considerata una delle poche alternative esistenti per poter avere acqua potabile.
La chiamano “maya helua” (acqua dolce) i palestinesi, per differenziarla da quella non potabile. Di frequente vanno a riempire le proprie taniche di plastica colorata presso stazioni dove è possibile acquistare acqua desalinizzata, altri aspettare le autobotti di compagnie private di depurazione che girano di abitazione in abitazione. C’è chi tenta di attingere acqua dalle riserve sotterranee attraverso pozzi fatti in casa, altri hanno installato nelle proprie case sistemi di filtraggio. Chi ne ha la possibilità economica, acquista bottiglie importate di acqua minerale.
Le risorse idriche scarseggiano per gli ormai due milioni di abitanti della Striscia. Nonostante i numerosi allarmi lanciati negli ultimi anni da organizzazioni internazionali sullo stato della falda acquifera di Gaza – contaminata da liquami, sostanze chimiche e acqua di mare – recenti rapporti rivelano che la situazione sta peggiorando. Non è che un disastro annunciato. Nel 2012, le Nazioni Unite in un rapporto rivelarono che Gaza sarebbe diventata invivibile nel 2020 e la falda acquifera sarebbe stata inutilizzabile a partire dal 2016. Il 96,5% della falda acquifera è oggi inutilizzabile: lo sfruttamento eccessivo ne ha causato l’esaurimento e il deterioramento. In aggiunta all’insufficiente acqua piovana, politiche israeliane hanno ulteriormente ridotto la possibilità della falda di alimentarsi – denunciano organizzazioni locali per il diritto all’acqua – impedendo alle acque sotterranee e di superficie di scorrere verso la falda dalla Cisgiordania e Israele, rendendo l’acqua piovana l’unica fonte per la falda acquifera.
Nonostante gli accordi di Oslo abbiano lasciato ai palestinesi parte della gestione delle risorse idriche, in realtà essi continuano a non avere diritto alle proprie risorse naturali, riporta il Palestinian Hydrology Group. Resta complicato per i palestinesi ottenere permessi per realizzare progetti, in particolare a favore delle comunità nell’ area C della Cisgiordania mentre l’assedio a Gaza ha impedito l’ingresso di attrezzature e materiali necessari per la manutenzione e lo sviluppo di infrastrutture idriche. Una disparità nel controllo delle risorse eredità degli accordi di Oslo e che consente a Israele di usare l’80% delle acque, lasciando ai palestinesi il restante 20%. Attualmente, essi possono gestire solo il 14% delle risorse idriche condivise, sostiene l’organizzazione israeliana B’tselem, mentre Israele utilizza l’86%, il 6% in più di quanto previsto dagli accordi. In più, l’Autorità Palestinese è costretta ad acquistare acqua dalla compagnia israeliana Mekorot, i cui serbatoi sono situati all’interno di insediamenti coloniali, al fine di fornire acqua a comunità palestinesi in Cisgiordania e Gaza.
Dopo venti anni di negoziati, nel 2015 Israele ha “concesso” ai palestinesi l’acquisto cinque milioni di metri cubi di acqua israeliana da destinare alla Striscia. Attualmente, Israele consente l’acquisto e il trasferimento a Gaza di 10 milioni di metri cubi di acqua all’anno, riporta questo mese l’organizzazione israeliana Gisha, che ha pubblicato un rapporto chiamato Hand on the switch (“Mano sull’interruttore”). Cinque milioni di metri cubi di acqua sono forniti attraverso due vecchie condutture dell’acqua, quella di Bani Suheila e Birket Sa’id, gli altri cinque milioni di metri cubi attraverso la nuova conduttura situata nelle vicinanze di Nahal Oz, diventata operativa a marzo del 2015.
Tuttavia, secondo l’Autorità israeliana dell’acqua, la quantità attuale di acqua consegnata a Gaza attraverso queste condutture è nei fatti minore, a causa del malfunzionamento dell’infrastruttura palestinese e problematiche relative a condutture e serbatoi. L’acquisto di acqua dalla compagnia Mekorot costa all’Autorità Palestinese circa 12 milioni di shekels (quasi tre milioni di euro) all’anno, afferma Gisha. Sebbene quest’acqua sia di qualità migliore rispetto a quella della falda acquifera di Gaza, essa viene fatta passare attraverso la stessa rete idrica e si mischia così a quella sotterranea, non adatta al consumo umano, al fine di migliorare in qualche modo la qualità dell’acqua fornita dalla rete idrica, inutilizzabile per bere e per cucinare. In più, la rete idrica non raggiunge tutte le aree di Gaza, denuncia Gisha: case, scuole luoghi di lavoro non ricevono acqua sufficiente e i controlli sulle compagnie private di depurazione sono minimi.
Mentre le politiche di chiusura israeliane impediscono l’accesso di materiali per il rinnovamento delle infrastrutture, tensioni tra l’Autorità palestinese e amministratori locali di Hamas hanno in alcuni casi ostacolato la cooperazione tra le municipalità e il governo centrale non agevolando la realizzazione di programmi a favore delle comunità locali. Nena News