L’accusa è di “apostasia”, cioè di rinuncia o abbandono dell’Islam. Nel regno sono state oltre 150 le decapitazioni quest’anno, un primato nero per Riyadh che vede nella letteratura uno dei maggiori veicoli del dissenso
della redazione
Roma, 21 novembre 2015, Nena News - E’ di nuovo al centro delle polemiche per il suo sistema giudiziario l’Arabia Saudita, campione di sentenze sempre più controverse nei confronti dei suoi cittadini dai comportamenti “poco ortodossi”. Questa volta il caso riguarda Ashraf Fayadh, poeta e artista di origine palestinese condannato a morte dal tribunale di Abha martedì scorso con l’accusa di “apostasia”, ovvero di “abbandono o rifiuto dell’Islam”.
La decisione, ancora appellabile poiché emessa da un tribunale minore, è il risultato dell’appello della pubblica accusa alla sentenza emessa lo scorso anno dalla stessa corte, che condannava Fayadh a quattro anni e 800 frustate per il suo comportamento “deviato”: secondo Adam Coogle, ricercatore di Human Rights Watch, l’episodio scatenante sarebbe stato una discussione culturale in un caffè di Abha, durante il quale Fayadh avrebbe detto “cose contro Dio”, stando a un testimone. A rincarare la dose, uno studioso di Islam lo avrebbe denunciato come “blasfemo” per una sua raccolta di poesie pubblicata nel 2008, volume che secondo la corte potrebbe “spingere altre persone a rinunciare all’Islam”.
Interrogato dal tribunale, Fayadh si è difeso dicendo che nel caffè era in corso un litigio, mentre i testimoni della difesa hanno dichiarato che l’uomo che accusava Fayadh “non era in sé”. Per quanto riguarda il secondo capo di imputazione, il poeta palestinese ha negato che il libro fosse blasfemo e si è scusato nel caso lo fosse agli occhi di qualcuno. Il pentimento e le scuse avevano spinto la corte a una punizione più leggera, ma poi il giudice dell’appello non ha tenuto in considerazione i testimoni della difesa e, soprattutto, ha pontificato che “il pentimento è per Dio”. E lo ha condannato a morte.
La pena capitale, prevista nel regno wahhabita nella sua forma “più umana” di decapitazione con la spada, è attribuita per reati che vanno dalla rapina a mano armata, all’omicidio, al traffico di stupefacenti e allo stupro. Anche l’apostasia figura nella lista, sebbene secondo Human Rights Watch la relativa condanna venga emessa in casi molto rari: quest’anno se ne conterebbe “solo” un’altra, a fronte di centinaia di sentenze per reati di spaccio di droghe leggere e omicidio. Numeri che fanno paura, secondo le organizzazioni internazionali: secondo Human Rights Watch Riyadh quest’anno avrebbe giustiziato oltre 150 persone, cifre da primato rispetto alle ultime due decadi. Tra le mani del boia, oltre ai sopracitati “criminali”, finiranno anche i dissidenti come gli al-Nimr, accusati di terrorismo per le proteste a cui avevano preso parte nel 2011-2012.
La letteratura, poi, è particolarmente osteggiata dalle autorità saudite, che temono il potere che ha la parola scritta di svegliare le coscienze e generare dissenso: proprio per questo lo scorso anno, durante l’annuale fiera internazionale del libro nella capitale, il governo aveva fatto sequestrare migliaia di libri di oltre 400 autori considerati portatori di “messaggi blasfemi” e per questo banditi. Tra questi, oltre ai volumi sulla condizione femminile e sulle primavere arabe, figuravano gli scritti di Mahmoud Darwish, il poeta palestinese che ha fatto della sua penna la sua arma per la lotta per la libertà. Nena News
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