L’allontanamento di Davutoglu dalla scena politica turca priva di un importante interlocutore l’Europa, ma non muta in maniera significativa il bilanciamento dei poteri all’interno della Turchia. Erdogan rimane l’unico a poter determinare il destino del Paese
di Francesca La Bella
Roma, 10 maggio 2016, Nena News- Colui che fino a pochi giorni fa veniva presentato come una marionetta nelle mani del Presidente Recep Tayyp Erdogan, ora appare come un politico moderato, attento alle necessità del Paese e, per alcuni aspetti, rivoluzionario. Il cambiamento dell’atteggiamento dell’opinione pubblica mondiale rispetto al valore politico di Ahmed Davutoglu, sembra strettamente collegato all’annuncio di imminenti dimissioni dalla carica di Primo Ministro e, durante il congresso straordinario previsto per il 22 maggio, da quella di segretario del AKP.
L’allontanamento dalla scena politica, determinato dalle pressioni in seno al partito e dai dissidi con Erdogan più che da una scelta individuale del Primo Ministro, avrebbe, infatti, portato alla luce l’esistenza di una corrente interna al partito di Governo più cauta rispetto alle principali questioni di politica interna ed estera turca: rapporto con i curdi e il PKK; censura alla stampa; gestione dei flussi migratori; laicismo della nazione e riforma costituzionale.
Nonostante le evidenti distanze tra le due anime del AKP, sarebbe, però, errato vedere le posizioni di Davutoglu come difformi rispetto a quelle di Erdogan. Quello che appare differente non è, infatti, la sostanza delle politiche messe in atto, ma metodi e tempi di attuazione e la disponibilità alla mediazione con le controparti. Per quanto riguarda il rapporto con il PKK, Davutoglu, pur avendo dimostrato minore fermezza rispetto ad altri esponenti del Governo nella chiusura di ogni canale di dialogo, ha più volte sottolineato di considerarlo impossibile dati i precedenti fallimenti, imputati in toto dal Primo Ministro alla guerriglia curda, ponendosi in linea con le politiche erdoganiane nelle aree curde.
A tal proposito Daily Sabah riporta le dichiarazioni della scorsa settimana in cui Davutoglu avrebbe affermato che “le operazioni continueranno fino a quando tutte le città, i villaggi e le montagne di Turchia non saranno liberate dal terrore”. Anche rispetto alla censura della stampa, le differenze sono minori di quelle che appaiono ad una prima analisi. Davutoglu ha dimostrato di essere contrario all’incarcerazione di giornalisti e, in varie occasioni, ha sottolineato la centralità della libertà di stampa perchè un Paese possa essere considerato democratico. Allo stesso tempo, però, il Primo Ministro ha ribadito più volte come la Turchia sia in linea con gli standard europei e che la tutela degli interessi nazionali sia da considerare prioritaria laddove esista un conflitto tra libertà di informazione e sicurezza interna.
Maggiore dissidio tra le due figure istituzionali si è, invece, evidenziato per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori e la riforma costituzionale. Rispetto alla prima questione, il “rapporto Pelican” (dal titolo di un film statunitense degli anni ’90) pubblicato anonimamente all’inizio di maggio, dimostrerebbe la mancanza di fiducia riposta da Erdogan in Davutoglu. Una fiducia persa a causa dell’accordo sulla gestione dei flussi dei migranti con l’Europa che avrebbe aperto le porte della Turchia all’influenza occidentale.
Il tradimento del Primo Ministro risiederebbe, dunque, nel aver mediato le proprie posizioni con quelle europee pur di mantenere un legame con il Vecchio Continente. Neanche questa motivazione sembra, però, essere la causa scatenante delle dimissioni obbligate del Primo Ministro. Per quanto il Presidente sia stato poco coinvolto nel negoziato con l’Europa, l’accordo non sarebbe stato possibile senza l’appoggio della dirigenza AKP e dello stesso Erdogan e, di conseguenza, sembra difficile immaginare che sia questo il motivo dell’allontanamento.
La disputa sulla Costituzione, alla luce degli eventi di questi giorni, appare, invece, essere la vera causa scatenante del divorzio tra Erdogan a Davutoglu. La riforma costituzionale, nel quale si inserisce la trasformazione in senso presidenziale della repubblica di Turchia, attiene a numerosi ambiti della politica interna ed internazionale ed il solco tra i due uomini si sarebbe approfondito a causa di diversi fattori. In primo luogo, in base alle notizie trapelate attraverso il blog di pubblicazione del “rapporto Pelican”, il mancato impegno di Davutoglu per indurre una svolta presidenzialista avrebbe suscitato un profondo disappunto nel Presidente.
In seconda battuta il possibile abbandono del laicismo di Stato rischia, da un lato, di portare alla mobilitazione forze politiche ancora sopite all’interno della Turchia e, dall’alltro, avvicina Ankara al Medio Oriente e la allontana dall’Europa. Questo processo, che non sembra spaventare Erdogan, suscitava timore in Davutoglu che, in più occasioni, ha ribadito la sua contrarientà al progetto soprattutto dopo le dichiarazioni del presidente del Parlamento di Ankara a favore di una costituzione religiosa.
In questo contesto, la flessione dei mercati turchi a seguito dell’annuncio delle dimissioni del Primo Ministro lascia trasparire la sfiducia internazionale rispetto alla capacità di Erdogan di mantenere la stabilità del Paese. Il mantenimento di una linea intransigente, frutto della convinzione di Erdogan dell’indispensabilità per i Paesi occidentali di un rapporto preferenziale con la Turchia per le sorti della regione, ha portato ad un ulteriore irrigidimento delle politiche governative e ad un maggiore disequilibrio del Paese e dell’area.
In quest’ottica, la dipartita di Davutoglu appare come la perdita di un interlocutore più affidabile sia per la maggiore disponibilità alla mediazione sia per la capacità di vedere i pericoli di una svolta anti-laicista in maniera autoritaria. Se le scelte del Presidente sono segnate da uno spiccato decisionismo, quelle del Primo Ministro sembrano guidate dalla volontà di mantenere la calma nel Paese e di guadagnare legittimità agli occhi dell’Europa dimostrandosi un partner credibile per la tutela della sicurezza del Medio Oriente. Metodi differenti per raggiungere gli stessi fini: costruzione di una legittimità internazionale attraverso una politica di potenza, autarchica e indisponibile alle mediazioni nel caso di Erdogan; rinsaldamento della credibilità internazionale tramite un legame preferenziale con l’Europa ed una democratizzazione strumentale per Davutoglu. Una linea considerata troppo morbida dal nuovo sultano turco.