Si moltiplicano le tensioni in Medio Oriente: uccisi 4 soldati siriani nel presunto bombardamento della coalizione contro un campo governativo a Deir Ezzor. Baghdad avverte Ankara: ritiri le truppe o interverremo.
della redazione
Roma, 7 dicembre 2015, Nena News – Gli Stati Uniti si sono affrettati a negare ma le voci dal campo si fanno sempre più insistenti: ieri quattro soldati siriani sono stati uccisi e 13 feriti da un bombardamento aereo (forse statunitense) contro il campo dell’esercito governativo Saeqa nella provincia di Deir Ezzor, est del paese. Quattro jet hanno lanciato nove raid che, oltre ad uccidere, hanno distrutto tre veicoli blindati, quattro veicoli militari e un deposito di armi, munizioni e mitragliatrici.
Per la prima volta dallo scorso settembre quando i primi raid della coalizione anti-Isis hanno iniziato a colpire il territorio siriano, verrebbe direttamente centrata una postazione di Damasco. A renderlo noto questa mattina è stato l’Osservatorio Siriano per i diritti umani, organizzazione basata a Londra e da subito schieratasi contro il presidente Assad: “La coalizione internazionale ha colpito ieri un campo nell’ovest della provincia di Deir Ezzor, a due chilometri da un’area controllata dallo Stato Islamico”.
Forse un errore, ma Washington nega: “Abbiamo letto i rapporti siriani ma non abbiamo condotto alcun bombardamento ieri a Deir Ezzor”, ha detto il colonnello Warren, portavoce della coalizione, aggiungengo che gli unici raid compiuti ieri nella provincia hanno riguardato zone a 54 km di distanza dal campo militare in questione.
Damasco coglie la palla al balzo: per un anno ha definito l’intervento della coalizione una violazione della sovranità siriana perché lanciato senza invito e autorizzazione del governo e oggi lo ripete. “Una palese aggressione che viola chiaramente la carta Onu”, ha detto il ministro degli Esteri siriano che ha chiesto l’intervento immediato delle Nazioni Unite. Se l’attacco fosse confermato, si aprirebbero altre crepe nel tentativo internazionale di giungere ad una transizione politica: entro i primi di gennaio l’accordo siglato a Vienna tra Usa, Russia e paesi coinvolti nella crisi siriana, prevede l’avvio di negoziati tra le opposizioni moderate e il governo Assad. Seppur nell’accordo non si accenni al destino del presidente (su cui Mosca e Washington sembrano non trovare un compromesso, almeno ufficialmente), la prevista partecipazione del governo al negoziato è la dimostrazione della legittimità riconosciuta dalla comunità internazionale all’establishment politico siriano.
Che Assad sarà alla fine messo da parte appare scontato: Mosca è pronto a sacrificare il presidente pur di mantenere in piedi un sistema di potere che garantisca il mantenimento e il rafforzamento dei propri interessi nella regione, in particolare quello sbocco sul Mediterraneo a cui da tempo anela. Dall’altra parte, gli Stati Uniti sono stati costretti all’angolo da opposizioni moderate sostenute per anni, finanziate e armate, e oggi scomparse sia dal campo di battaglia che dai tavoli della diplomazia mondiale. Il compromesso è certo. In tale contesto il presunto raid contro un campo governativo potrebbe essere un messaggio diretto a Mosca e Damasco: via libera al negoziato, ma resta in piedi la precondizione di Occidente, Turchia e Golfo, ovvero la testa di Assad.
Probabilmente un errore in vista del dialogo previsto per gennaio e del potere contrattuale di cui gode la Russia, la più efficace sul piano militare e l’unica con i piedi sul terreno, con truppe scelte e milizie sciite guidate dall’Iran.
Iraq: ultimatum alla Turchia
Dall’altra parte del confine sale la tensione tra Baghdad e Ankara dopo l’invio di truppe e carri armati turchi a Bashiqa, zona controllata dai peshmerga a soli 20 km da Mosul. Ieri il governo iracheno ha dato alla Turchia un ultimatum di 48 per ritirare i soldati, pena l’assunzione di “ogni opzione disponibile” per far rispettare la sovranità del paese, compreso il ricorso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
L’ingresso turco in territorio iracheno ha ampliato ulteriormente gli screzi tra Baghdad e Erbil: i peshmerga hanno invitato le truppe di Ankara per attività di addestramento. Questa la versione ufficiale. Non sono mancati capi dei peshmerga, però, che sabato hanno dato una spiegazione ben diversa: la Turchia starebbe preparando la controffensiva su Mosul, seconda città irachena e prima per importanza economica, che il governo kurdo ha sempre detto di non voler porre sotto il proprio controllo. Ma oggi Mosul è circondata e non certo dalle forze governative irachene: a circondarla sono i peshmerga da ovest, da Sinjar, e da est, da Erbil.
Questa mattina Ankara ha cercato di tamponare: il premier Davutoglu ha inviato una lettera al primo ministro iracheno al-Abadi nella quale dichiara di aver sospeso l’invio di soldati, fino a quando non si troverà un accordo con Baghdad. Nessun ritiro, quindi, ma un congelamento del dispiegamento militare. Già sabato le autorità turche si erano difese affermando di voler sostenere i combattenti anti-Isis sul terreno, i peshmerga ma anche – nel caso di richiesta – l’esercito iracheno.
La realtà è altra: il mese scorso Erbil e Ankara hanno siglato un accordo che conterrebbe anche la previsione di una base militare turca in territorio iracheno, a Bashiqa, nella provincia di Ninewe. Un luogo strategico perché lungo la linea del fronte tra Isis e peshmerga e a soli 20 km da Mosul. Che i rapporti tra kurdi iracheni e turchi si facciano ogni giorno più stretti non è una novità: Erbil cerca sostegno per vendere il petrolio bypassando Baghdad e per ampliare e consolidare i confini del Kurdistan iracheno, chiaramente alla caccia dell’indipendenza dall’Iraq.
Ankara a sua volta vede in Erbil lo strumento per arginare il movimento di liberazione kurdo tra Siria e Turchia, ovvero il Pkk e il progetto confederale democratico di Rojava, non certo condiviso dai kurdi iracheni che non hanno mai realmente protestato per i raid turchi contro il Pkk nel proprio territorio. Ma Erbil è utile anche per frenare l’influenza iraniana: uno Stato cuscinetto che separi la Turchia dall’Iran e dall’Iraq del governo sciita di al-Abadi, soprattutto viste le mire di Teheran. L’Iran punta ad un Iraq unito per poterlo controllare meglio e usarlo come via di collegamento con la Siria e il Libano: un asse sciita unico, non solo politicamente ma anche territorialmente.
A rafforzare il rapporto tra Ankara e Erbil penserà un nuovo incontro il 9 dicembre tra il presidente kurdo Barzani e il ministro degli Esteri turco Cavusoglu, in Turchia. Nena News