«Erdogan sapeva di rischiare di perdere consenso tra il proprio elettorato trattando con il leader curdo Ocalan. Per questo, mentre parlava di pace, negava l’identità curda, l’insegnamento della lingua curda, impediva la partecipazione politica dei curdi e gettava fango sull’Hdp» sostiene la giornalista e attivista turca
di Chiara Cruciati – il Manifesto
Roma, 28 luglio 2015, Nena News – Raid sullo Stato Islamico in Siria, operazioni militari contro il Pkk tra Turchia e Iraq: Ankara, dopo un anno di silenzio e accuse di collaborazionismo con l’Isis, si è lanciata contro gli islamisti. Ma il target principale è chiaramente un altro: il movimento kurdo. Finisce così una tregua mai realmente voluta dalla Turchia di Erdogan, le cui politiche neoliberiste e nazionaliste hanno affossato le tante richieste di democrazia provenienti dalla base, turca e kurda.
Ne abbiamo parlato con Murat Cinar, giornalista e attivista della sinistra turca.
Dopo aver evitato di intervenire per oltre un anno, ora la Turchia colpisce lo Stato Islamico. Ma anche e soprattutto il Pkk. Sembra che l’azione contro l’Isis sia in realtà una giustificazione all’intervento contro il movimento kurdo.
Le prime operazioni subito dopo la strage di Suruc compiute in quasi 25 città, con lo scopo di arrestare eventuali appartenenti alle organizzazioni Hpg, Pkk e Isis, hanno reso chiaro il proposito del governo: reprimere il Pkk, attraverso arresti di massa e sequestro di beni. Azioni che non venivano messe in atto da quando l’Akp e i servizi segreti hanno optato per il negoziato con Ocalan. La scorsa settimana la rottura della tregua si è concretizzata con i bombardamenti dei jet turchi contro la montagna di Qandil, dove si trovano ufficiali del Pkk e sedi dell’organizzazione.
Ma i raid non vanno letti come un intento secondario: la Turchia non attacca l’Isis e, con quella scusa, anche il Pkk. La prima notte, la Turchia ha bombardato l’Isis in un intervento molto semplice e breve, solo 25 minuti e 5 bombe. Quello contro il Pkk non è un intervento secondario, ma primario: le parole di Davutoglu e le azioni dell’esercito sono l’espressione chiara dell’intenzione di colpire il Pkk e non l’Isis. Davutoglu domenica ha detto che lo scopo è rispondere al Pkk in merito all’uccisione dei due poliziotti a Ceylanpinar. Un gesto forte dopo due anni e mezzo di quasi totale silenzio. Dico quasi perché negli ultimi mesi la tensione era salita: l’esercito ha costruito dighe e nuove caserme in territorio kurdo e ha militarizzato il territorio.
Ancora sabato e domenica in altre 30 città migliaia di poliziotti hanno svolto operazioni nelle abitazioni di civili portando in caserma centinaia di presunti membri del Pkk, ma anche membri del Partito Democratico del Popolo, l’Hdp.
In realtà Erdogan non ha mai portato avanti seriamente il negoziato. Perché l’Akp non vuole la pace?
Parliamo di una realtà partitica particolare: l’Akp prende i voti non solo dai conservatori, ma anche dai nazionalisti. Con l’apparizione di Erdogan sulla scena politica, il partito nazionalista turco è morto e i voti sono confluiti sull’Akp, una compagine nuova con un leader carismatico che aveva promesso un fittizio rilancio economico e la soluzione di un problema storico senza armi.
Ma mentre Erdogan prometteva una soluzione di riconciliazione nazionale (anche per attirare i voti dei kurdi conservatori o dei giovani kurdi che non hanno conosciuto l’epoca della repressione), sapeva di rischiare di perdere consenso tra il proprio elettorato trattando con Ocalan, definito dalla stampa come macellaio e terrorista. Difficile giustificare all’opinione pubblica un negoziato tra i tuoi parlamentari e i tuoi servizi segreti e il Pkk. Per questo, mentre parlava di pace, Erdogan negava l’identità kurda, l’insegnamento della lingua kurda, impediva la partecipazione politica dei kurdi e gettava fango sull’Hdp.
È un gioco insano che non poteva reggere. Perché mentre Erdogan uccideva i nostri giovani a Gezi Park, rendeva precario il lavoro, svendeva il paese, le banche e i porti ai privati, introduceva i pacchetti di sicurezza più totalitari mai visti in Turchia, uccideva centinaia di operai rendendo insicuro il lavoro, non poteva allo stesso tempo costruire la pace né rendere più democratico il paese.
Nei prossimi giorni e mesi si riaprirà il conflitto? L’impressione è che Ankara punti al caos per tornare al voto.
Il conflitto si è già riaperto. Il governo non è ancora legittimo e non si impegnerà a risolvere la questione in modo pacifico. Erdogan è stato chiaro: Pkk e Hdp non hanno saputo sfruttare questa occasione, per cui non avrà pietà.
Dopotutto Erdogan ha sempre governato con la paura e i pacchetti di sicurezza. Aumenta il numero di poliziotti e i loro stipendi, applica le leggi costituzionali degli ultimi golpisti per sospendere il diritto di sciopero, invia la gendarmeria contro gli operai che chiedono aumenti salariali. Lo ha fatto a primavera contro i 100mila metalmeccanici in sciopero e, prima, con i lavoratori del Tekel, l’ente statale per tabacchi e alcolici.
È la cultura della paranoia che aumenta l’attaccamento alla religione e al sentimento nazionalista: la Turchia è il laboratorio del gladio e del nazionalismo ed Erdogan non è che la nuova faccia che sfrutta politiche storiche, dai progetti anti-comunisti di Carter fino al golpe del 1980. È solo l’ultimo strumento di un sistema secolare, un sistema che funziona ma a breve termine. La Storia dimostra che queste politiche non durano. L’Akp può reggere dieci, vent’anni: Gezi Park ha dimostrato che Erdogan è in declino. La mia paura è che mentre va verso la rovina, si trascini dietro un paese a pezzi, pieno di conflitti interni.
In un intervento a Radio Onda d’Urto, lei ha parlato di un infiltrato nell’Akp che già dopo le elezioni riportava dell’alta probabilità di attentati organizzati dai servizi segreti.
Si tratta di un account misterioso che opera da molto tempo, probabilmente un membro dell’Akp. In passato ha annunciato in anticipo diverse operazioni dell’esercito e dei servizi segreti. Pochi giorni dopo le elezioni del 7 giugno, ha scritto di un pacchetto di Akp e servizi segreti per trascinare il paese nel caos attraverso una serie di attentati, così da portare il popolo a elezioni anticipate, a novembre, convincendolo che solo un governo a partito unico potrà salvarlo.
Quale potrebbe essere la reazione dei movimenti di base turchi e kurdi, quelli che scesero in piazza per Gezi Park e più recentemente per Kobane e Rojava?
Dopo Gezi la gente ha capito di poter fare tanto, il paese si è alzato in piedi e ora ci mette poco a mobilitarsi. Gezi ha sollevato una coscienza che dormiva. La gente è intimorita per le morti di piazza e le aggressioni della polizia ma la strada è ormai segnata: la sinistra si è mobilitata e il successo elettorale dell’Hdp ne è la prova. Non è ormai un partito filo-kurdo e basta, ma è il rappresentante parlamentare della sinistra radicale e dei movimenti di base. Nena News