«Jin, Jiyan, Azadi», il volume realizzato dall’Istituto Andrea Wolf, per Tamu Edizioni. Memorie, pagine di diario, lettere e racconti: il lavoro compiuto su se stesse e sul Pkk, per tornare alle origini delle società umane e ricostruire una società equa, democratica e femminista
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 9 marzo 2022, Nena News – Un mese dopo l’inizio del feroce assedio dell’Isis a Kobane, nel settembre 2014, un noto marchio d’abbigliamento europeo inserì nel suo catalogo capi di vestiario femminili ispirati alle uniformi delle combattenti curde. Durò poco, le polemiche lo costrinsero a scusarsi.
Quell’episodio si accompagnava all’estemporaneo interesse occidentale per le donne del nord-est della Siria, impegnate a difendere la propria società e il progetto politico del confederalismo democratico dall’attacco militare e ideologico del fanatismo islamista.
Un’attenzione superficiale, limitata ai fucili in spalla, che evaporò poco dopo e che non ha mai scavato nella teorizzazione che stava dietro a quell’impegno. Eppure la lotta curda di liberazione delle donne non è ascrivibile a un lasso di tempo o a un territorio limitato né a un frangente storico definito. È figlia di un percorso a ritroso, alle origini dell’umanità, dove rintracciare le origini del patriarcato e la millenaria impalcatura politica, sociale ed economica di dominio maschile sulle donne.
Quel percorso è raccontato da Jin, Jiyan, Azadi. La rivoluzione delle donne del Kurdistan (Tamu, pp. 448, euro 22). Realizzato dall’Istituto Andrea Wolf, nato nel 2019 e parte dell’Accademia di Jineolojî in Rojava, è stato tradotto in italiano dal comitato italiano di Jineolojî. Dalla struttura fluida, il libro – nella prospettiva di costruzione di una forma di sapere non patriarcale – conduce nelle viscere della rivoluzione attraverso le voci delle donne che l’hanno realizzata, e la stanno realizzando.
Venti rivoluzionarie offrono le loro memorie, pagine di diario, lettere, racconti e riflessioni, il lavoro compiuto su se stesse, sul Pkk e la società curda per una trasformazione storica dei rapporti di genere, sociali e nazionali, potenzialmente a livello globale.
Al cuore del processo rivoluzionario sta uno dei pilastri del confederalismo democratico, teorizzato dal leader del Pkk Abdullah Ocalan e reso pratica quotidiana dalle comunità della Siria del nord-est: democrazia radicale, ecologismo e liberazione delle donne, che ne è il fulcro, il femminismo come conditio sine qua non per un nuovo modello di società, il cemento con cui costruirne la struttura, l’indispensabile creta per plasmarne la forma. Perché è possibile immaginare il ribaltamento del sistema patriarcale e l’uccisione del maschio dominante solo attraverso la liberazione delle donne, prima nazione oppressa e colonizzata del mondo dalle civiltà post-neolitiche per mano dell’embrionale sistema capitalista e del nucleo fondante l’idea di Stato: la famiglia.
Con gradi e forme diverse nelle varie epoche storiche e luoghi del pianeta, la sostituzione del matriarcato (affatto inteso come dominio femminile sul maschile, ma come società equa fondata sulla comune partecipazione alla collettività e al suo sviluppo, nel rispetto delle differenze e della natura) con il patriarcato è segnata dalla nascita delle prime classi sociali e delle gerarchie di potere (lo sciamano, il guerriero e il capo tribù, volti delle istituzioni religiose, militari e politiche). È all’interno della famiglia, con il matrimonio, che il capitalismo fonda le sue radici: è nei rapporti familiari che si realizza la primitiva appropriazione del capitale a scapito delle donne, l’imposizione del ruolo riproduttivo e di cura e il controllo della sessualità, l’annullamento della partecipazione femminile alla cosa comune.
Da queste basi teoriche, il movimento delle donne curde avvia il suo lungo e complesso viaggio. Fatto di educazione nelle carceri dello Stato turco, di studio e autocritica, di lotta al patriarcato all’interno del Pkk delle origini, di creazione delle prime forme assembleari solo femminili, di liberazione dai vincoli sociali imposti da comunità restie al ritorno delle donne al cuore dello sviluppo politico, economico e sociale.
Fino alla nascita di un partito nel partito e alle prime forze di autodifesa, tra gli anni Novanta e Duemila, e alla fondazione di Jineolojî, una scienza nuova che superi il positivismo bianco, maschile e borghese e riveda lo studio della storia, l’economia, la politica, le scienze secondo criteri nuovi, plurali, femminili.
L’io narrante del libro diventa il noi, voci che incontrandosi restituiscono la forza propulsiva di un radicalismo realmente trasformativo. Che torna alle origini dell’umanità per creare – o ricreare – una società eguale, democratica e libera, dove etica ed estetica forgiano l’umanità nuova. Bella, come una donna che combatte.
E come, ricorda il libro, la prima parola coniata per nominare la libertà: in lingua sumera amargi, introdotta dopo l’imposizione del potere maschile e gerarchico, è composta da due simboli, «ritorno» e «madre». Il ritorno alla madre, all’assenza di dominio, violenza e guerra.