Abdel Fattah al-Sisi ha venduto il proprio Paese come destinazione per gli investimenti con la complicità dell’Fmi che da una parte gonfia le prestazioni economiche e dall’altra chiede che il peso dei tagli ricada sui poveri. Così il tenore di vita dell’egiziano medio sta precipitando, mentre le élite si riempiono le tasche
Yehia Hamed* – Foreign Policy
(Traduzione di Elena Bellini)
Roma, 14 giugno 2019, Nena News – A un anno dal riposizionamento dell’Egitto come “destinazione per gli investimenti globali”, gli esperti finanziari hanno iniziato a definirlo come “il più caldo mercato emergente”. Gli investitori stanno inondando il Paese nella speranza di fare fortuna sui mercati finanziari egiziani: a dicembre 2018, i detentori stranieri di debito locale erano oltre il 20% in più rispetto all’anno precedente, con una previsione di ulteriore aumento nel 2019. Una banca di investimento ha definito l’apparente risanamento dell’Egitto come “la più affascinante esperienza di ripresa” di Medio Oriente, Africa ed Europa dell’Est.
Ma tutto ciò nasconde una più oscura realtà. In una relazione pubblicata dalla Banca Mondiale nell’aprile del 2019, si calcola che “circa il 60% della popolazione egiziana è povera o a rischio”. Le condizioni di vita generali, nel frattempo, stanno rapidamente peggiorando. Come può essere, quindi, che le prospettive economiche dell’Egitto appaiano così rosee?
Al centro della miracolosa ripresa economica egiziana c’è un grande inganno, i cui artefici sono il governo del generale-diventato-presidente Abdel Fattah al-Sisi e il Fondo Monetario Internazionale. La mala amministrazione cronica dei conti pubblici da parte del governo e la sua generale negligenza hanno causato un aumento del debito estero – fino a cinque volte tanto negli ultimi cinque anni – a causa della svalutazione della sterlina egiziana, con un debito pubblico più che raddoppiato. E la previsione, per l’immediato futuro, è che continui ad aumentare. Attualmente, il governo stanzia il 38% del budget totale per il solo pagamento degli interessi sul debito. Se aggiungiamo i prestiti e le rateizzazioni, ecco che viene inghiottito il 58%.
La maggior parte delle risorse pubbliche egiziane, in altre parole, se ne va in facilitazioni di pagamento sul debito invece che per il rafforzamento e sostegno della società civile. Che in un Paese di 100 milioni di abitanti sulle sponde del Mediterraneo si spenda una tale miseria per sanità, educazione e infrastrutture è allarmante, e dovrebbe preoccupare anche l’Europa.
Se l’andamento attuale continua, l’Egitto andrà presto in bancarotta. Questo non è che il primo passo verso il totale fallimento dello Stato. Come entità politica, il governo di al-Sisi sta già perdendo legittimità a livello internazionale, grazie alla diffusione di notizie di brogli elettorali in occasione sia dell’elezione di al-Sisi alla presidenza che del recente referendum sulla modifica costituzionale. Se questo governo non riesce a garantire i servizi essenziali alla popolazione che sostiene di servire, mentre porta avanti il regime di repressione e violenza, dimostrerà la propria incapacità totale di governare anche nel modo più semplice.
Ma le sensazioni internazionali interessano meno di quelle della popolazione civile. Quando un Paese intraprende la via del declino, è solo questione di tempo perché la gente prenda in mano la situazione o cominci a cercare qualche altro posto da poter chiamare casa. L’impatto delle migrazioni di massa iniziate quando è fallita la Libia è stato chiaro a tutti coloro che hanno voluto interessarsene. L’Egitto è un Paese oltre 15 volte più grande; le ripercussioni del suo fallimento sarebbero così drammatiche da essere quasi inimmaginabili.
Dal canto suo, il Fondo Monetario Internazionale ha non poche responsabilità. L’Fmi ha manipolato la struttura dell’economia egiziana; indica, per l’Egitto, tassi di crescita che però sono sovradimensionati, se si considerano i livelli del debito. Come se qualcuno ingigantisse i propri utili assumendo prestiti superiori alle proprie capacità. Un esempio di questa sopravvalutazione si può vedere nelle riserve egiziane in valuta estera, che superano i 40 miliardi di dollari. Sebbene considerevoli, tali riserve sono costituite da denaro in prestito e creano debito estero, il tutto gonfiando artificialmente le dimensioni e la stabilità dell’economia egiziana.
Ecco l’esito naturale dell’evidente politicizzazione dell’Fmi:concede prestiti a condizione che i beneficiari affrontino il problema della bilancia dei pagamenti, stabilizzino l’economia e quindi ripristinino la crescita economica. In pratica, però, il Fondo Monetario Internazionale chiede ai governi di tagliare i sussidi alla propria popolazione per far fronte allo squilibrio economico. Riduci il deficit, l’idea funziona, e potrai beneficiare dei nostri prestiti. Tuttavia, davanti alla scelta tra tagliare la spesa pubblica, i salari statali, o gli interessi sulla restituzione del debito – voci che, tutte insieme, costituiscono le principali spese del governo – è ovvio cosa deciderà al-Sisi. E così, ecco che vengono negati i sussidi alla maggior parte dei poveri, che ne dipendono per sopravvivere. “Io so – ha dichiarato al-Sisi – che il popolo egiziano ce la può fare”.
Questo approccio può aver un senso in alcune zone, ma solo a patto che siano previsti adeguati ammortizzatori sociali. Senza ammortizzatori, chi più dipende dai sussidi governativi passa molto rapidamente dalla povertà alla maggiore povertà. Questo è il caso dell’Egitto, il cui governo non ha minimamente previsto alcun sistema di previdenza sociale. Ancor più inquietante è il fatto che l’Fmi non chieda ad al-Sisi di garantirlo.
La strategia dell’Fmi funziona in base al presupposto che la massimizzazione della crescita e la riduzione al minimo del deficit si tradurrà nel miglior risultato possibile per il Paese e per chi ci vive. Questo presupposto è, nel migliore dei casi, di un’ingenuità sconvolgente. Si presume che autocrati e uomini forti come al-Sisi, che negli ultimi 5 anni non ha dimostrato altro che disprezzo per il suo popolo, considerino il benessere dei loro concittadini addirittura allo stesso livello degli interessi delle élite al potere. Ne deriva che tutte le riforme economiche effettivamente adottate da al-Sisi su richiesta dell’Fmi impongono un onere più gravoso su coloro che meno sono in grado di sopportarlo.
E, nel momento in cui l’Fmi ha messo in dubbio la capacità dell’Egitto di adempiere alla restituzione degli interessi, al-Sisi si è semplicemente rivolto ai mercati monetari internazionali per il capitale, contando sulla propensione dell’Fmi a concedere un gran numero di prestiti per rassicurare i nuovi investitori sulla stabilità dell’economia egiziana. Tutto ciò non può durare: le fondamenta stesse dell’economia sono marce. Il governo di al-Sisi continua a contrarre prestiti per finanziare progetti infrastrutturali inutili ed eccessivi. E intanto la maggior parte degli egiziani può a malapena permettersi l’olio da cucina.
La soluzione di questo problema parte dalla politica. Finché gli egiziani hanno un governo che gestisce male i conti pubblici, non ci si può aspettare di avere le politiche economiche necessarie a salvare l’Egitto dal baratro. La dittatura militare di al-Sisi ha un’influenza tale sulle imprese che supera perfino i più eclatanti racket protezionistici dell’ex dittatore Hosni Mubarak.
In questo contesto, le decisioni economiche vengono prese senza alcun riguardo per gli interessi della popolazione. Solo una ristretta cricca di personaggi ai livelli più alti del potere ne trae beneficio. Nel farlo, consolida il proprio potere e continua a strangolare il Paese.
Lo stesso schema si è visto sotto Gheddafi in Libia, ed è usuale per i dittatori in tutto il mondo. Con al-Sisi al timone, il cosiddetto “più caldo mercato emergente”, nonché destinazione per gli investimenti globali, sta andando verso l’orlo del baratro. Se dovesse cadere nella tenebra infinita, non ne pagherà le conseguenze solo il popolo egiziano. Ne pagherà le conseguenze l’Africa. E il Medio Oriente. E anche l’Europa, che, nel nome del pragmatismo, ha permesso ad al-Sisi di prosperare.
*Yehia Hamed è l’ex ministro egiziano degli Investimenti. Era in carica nell’ultimo governo egiziano democraticamente eletto