Dopo 15 ore dalle proteste nei vari governatorati, il ministro delle Forniture ha cancellato le previste riduzioni dei sussidi. Ma la questione strutturale e ideologica resta: un regime distante e arrogante continua a fare gli stessi errori, zero trasparenza nella governance, nessuna discussione, neppure l’apparenza di una volontà democratica
di Amr Khalifa – Middle East Eye
Roma, 22 marzo 2017, Nena News – Il sacrificio, con la vittoria come obiettivo supposto sul lungo termine, è centrale sia per l’ethos militare egiziano che per la mentalità economica del presidente Abdel Fattah al-Sisi. All’inizio di novembre, con il governo egiziano che svalutava la moneta, parlai con esperti di economica che avvertivano che questa strategia avrebbe potuto condurre ad un’inflazione esplosiva.
Poteva al-Sisi controbilanciare la sofferenza con politiche che avrebbero attutito il colpo? Era quella la scommessa. Prevedibilmente, nelle successive 16 settimane, l’Egitto ha visto il tasso di inflazione passare dal 14% a oltre il 30% alla fine di febbraio.
E circa cinque mesi dopo, nonostante alcuni elementi positivi, il bilancio sulle riforme economiche di al-Sisi è nebuloso, con rischio di pioggia. In Egitto, il teatro dell’assurdo non è qualcosa a cui assisti ma qualcosa che vivi. Quelli in attesa di una ripresa economica con al-Sisi al timone aspettano Godot.
Che mangino dolci
“L’aumento dei prezzi distrugge la gente. La soluzione non sta nei sussidi. C’è qualcosa chiamato politiche di deflazione, alla portata della Banca Centrale e del Dipartimento delle Finanze se avessero capito i loro doveri”, ha sparato su Twitter circa sei settimane fa l’economista egiziana Fatma al-Asyooty.
Se, come regime, decidi di assumere riforme rischiose, non significa ammettere di aver fallito la presa di precauzioni necessarie per garantire che una società già instabile non sia ulteriormente destabilizzata da tali riforme?
L’inflazione era un rischio compreso da tutte le parti e parlando con qualsiasi egiziano, educato o no, delle classi basse o di quelle alte, si vede che quasi nessuno non l’ha subita. In commenti riportati all’inizio del mese, il ministro delle Finanze Amr el-Garthy non ha negato che l’inflazione cresca come un fungo. Eppure deve essere frustrante per un egiziano che, in media, guadagna meno di 3 dollari al giorno sentire un ministro – i cui occhiali valgono quanto tre mesi di stipendio e la cui giacca potrebbe dar da mangiare ad una famiglia per 4-6 mesi – dire che l’inflazione “crescerà a febbraio e marzo ma poi comincerà a calare”.
I tentativi di sedare le paure hanno fatto poco per frenare i prezzi di mercato di beni alimentari, salute e spese domestiche. I poteri economici possono stare nel business dei numeri, focalizzati su modelli economici, permute e manipolazioni, ma mancano della abilità politica necessaria a muoversi in questa zona di pericolo.
Invece del progetto di immagine de “i cambiamenti hanno un costo” che equivale, nella mente di molti, ad aprirsi al ritornello alla Maria Antonietta “che mangino dolci”, i responsabili dell’economia egiziana – e in definitiva al-Sisi stesso – devono comprendere la profondità della crisi e i suoi effetti quotidiani su decine di milioni di egiziani e dunque formulare ed eseguire un piano.
Ma in Egitto una politica razionale è rara come un giorno di neve e un generale ha detto, infatti, agli egiziani di “restare affamati”.
Toccare il pane, minacciare il potere
Questa combinazione (potenzialmente letale sul piano politico) di distacco dal pubblico e la mancanza di preparazione di una rete di sicurezza sociale ha quasi causato una situazione esplosiva all’inizio del mese. Con la gente già sofferente per l’aumento dei prezzi del cibo, oltre il 40%, il Ministero delle Forniture ha pensato bene di limitare le razioni di pane ai fornai.
La mossa voleva impedire ai forni governativi e privati di rivendere la farina sotto sussidio sul mercato a costi maggiorati. Ma ha avuto l’effetto di limitare enormemente l’accesso a coloro senza carta magnetica per il sussidio del pane.
Il piano originale era ridurre la quantità di pagnotte sotto sussidio ad ogni forno da 1.000-4.000 a solo 500. Il pane in arabo egiziano colloquiale si dice a3ish, che significa “vita”. Il pane è letteralmente imprescindibile in un paese dove oltre il 27% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Quella stessa soglia minaccia di inghiottire altri milioni di persone come impatto diretto delle politiche di riforma del Fondo Monetario Internazionale, ingenuamente implementate da un regime a cui sono cadute in testa.
Così, non dovrebbe sorprendere che ogni tentativo di de-sussidiare il pane possa avere effetti esplosivi. Tocca il loro pane e loro minacceranno il tuo potere: è lo stessa cosa che accadde nel 1977 quando Anwar Sadat era al governo ed è rimasto così finora.
In due giorni, il 5 e 6 marzo, manifestazioni di egiziani ordinari e apolitici si sono allargate da Kafr al-Sheikh a Giza, dal Cairo a Alessandria a Minya. Va ricordato che nel 1977 l’aspettativa di vita per un egiziano era di 56,2 anni ed è ora di 71,1 anni. Questo aumento, insieme ad una popolazione di oltre 92 milioni di persone, fa sì che il pane e la gestione dei sussidi sia un pantano esistenziale per ogni regime.
In un quartiere operaio di Alessandria la scena si è scaldata quando la polizia è stata sopraffatta da centinaia di donne velate e operai che urlavano un semplice grido: “Vogliamo il pane, non abbiamo abbastanza cibo”. Con le vite minacciate, nessuna legge anti-proteste potrebbe mettere sotto silenzio questi egiziani. Al contrario centinaia di manifestazioni diverse hanno preso le strade urlando “Via al-Sisi”. Così volatile era la situazione che i manifestanti hanno circondato l’ufficio locale del Ministero delle Forniture nel quartiere Saba Mat di Alessandria e un alto ufficiale è dovuto fuggire.
Subito dopo, notizia confermata dai media, la polizia si è infilata nelle manifestazioni non per sparare ma per distribuire il tanto necessario pane gratis, perché il governo si è improvvisamente ricordato di quanto destabilizzante sia superare certe linee rosse.
Dopo 15 ore dalle proteste nei vari governatorati, il ministro delle Forniture Ali Meselhy ha cancellato le previste riduzioni dei sussidi. Questa volta una crisi potenzialmente massiva e un possibile confronto sono stati evitati. Ma la questione strutturale e ideologica resta. Un regime distante e arrogante continua a fare gli stessi errori: zero trasparenza nella governance, nessuna discussione, neppure l’apparenza di una volontà democratica.
In Egitto la democrazia è una facciata; l’accordo con l’Fmi è stato approvato dal parlamento egiziano quattro mesi fa dopo il fatto. Mantieni questo livello e al-Sisi e la sua gang non hanno bisogno di altri nemici se non se stessi.
La riforma bloccata
Seppur dolorose, le riforme economiche hanno incluso gli sforzi del governo di aumentare gli investimenti diretti stranieri per fermare l’emorragia. In cima a tali sforzi c’è una proposta di legge che sarebbe una manna per gli investitori esteri.La legge in questione vuole affrontare alcune questioni croniche. Innanzitutto, permette alle compagnie straniere di rimpatriare i profitti, incrementare la percentuale di dipendenti stranieri dal 10% al 20% (anche se questo non aiuta ad innalzare l’occupazione egiziana) e diminuire le antiquate procedure burocratiche previste per chi apre società nel mercato egiziano.
Ma – e in Egitto c’è sempre un ma – la legge si è impantanata nel dibattito da fine dicembre. In particolare nelle settimane subito successive alla svalutazione del 3 novembre, il governo ha provato a reclamare la vittoria, dicendo che le proprie politiche avrebbero coperto il buco tra il tasso di cambio ufficiale e quello parallelo del mercato. Ma ci sono chiari segni che il governo sta perdendo la battaglia.
A fine febbraio la sterlina è “salita” a 15,72 contro il dollaro. Con l’arrivo di marzo, tuttavia, il pendolo ha cominciato a muoversi nella direzione sbagliata, fino a 16,3 sterline sul dollaro. Una settimana dopo il dollaro è arrivato a 18 sterline, con alcuni esperti che avvertono che con il Ramadan all’orizzonte (quando cioè il mese sacro aumenterà la domanda) potrebbe toccare quota 20.
Vale la pena menzionare il fatto che c’è stato un afflusso di dollari nel sistema finanziario a partire dalle riforme, ma ciò non pare dovuto alla fiducia degli investitori quanto ai commercianti stranieri di valuta che sfruttano l’opportunità.
Guardare la canna di una pistola
Se alcune fluttuazioni di mercato erano attese, più di 12 settimane dopo lo choc iniziale della svalutazione, la stabilizzazione o qualcosa di simile avrebbe dovuto essere all’orizzonte. Invece, sia il governo che la cittadinanza guardano la canna di una pistola carica. Il dollaro in crescita devasterà ancora di più milioni di egiziani che in silenzio ribollono di rabbia sotto la pressione di un’inflazione senza fine e sfiderà una banca centrale e un governo che sembrano insistere nel dare la colpa alla crisi economica attuale post primavere arabe.
Fino a quando non si genererà senso di responsabilità per questo pantano, come potrà aumentare la fiducia dei mercati locale e straniero nella politica monetaria? La popolarità di al-Sisi ha subito un colpo incredibile a seguito della svalutazione e le riforme. Ma l’autocrate è stato sorprendentemente relisiente, mantenendo una presa corazzata sul potere mentre l’inflessibile legge sulle proteste teneva a bada il resto.
E adesso ha davanti a sé due sviluppi favorevoli: un presidente americano che pensa che al-Sisi sia “un tipo fantastico” e il ritorno dell’Arabia Saudita ad un accordo positivo che fornisce all’Egitto il petrolio di cui necessita. Al-Sisi deve pensare che il quadro è luminoso. Non sarebbe la prima volta che si sbaglia.
Amr Khalifa è giornalista freelance e analista per Ahram Online, Mada Masr, The New Arab, Muftah e Daily News Egypt
Traduzione a cura della redazione di Nena News