Il congresso straordinario, chiamato dopo una lunga campagna di pressione della società civile e di alcuni club contro la partecipazione alla Coppa del Mondo a Doha, è finito con un nulla di fatto: la nazionale norvegese parteciperà. “Giocheremo in un cimitero”, aveva detto la Norwegian Supporters Alliance, in riferimento alle migliaia di migranti morti nei cantieri qatarioti
della redazione
Roma, 21 giugno 2021, Nena News – Il tentativo di boicottaggio norvegese della coppa del mondo di calcio in Qatar è andato a vuoto: la Nff, la Federcalcio norvegese, ha votato ieri contro la richiesta di non partecipare al Mondiale del 2022 nel paese del Golfo, richiesta emersa a seguito delle denunce di violazioni strutturali dei diritti umani nella petromonarchia legate alla costruzione degli impianti per l’evento sportivo.
In un congresso straordinario tenutosi ieri, 368 delegati della Nff hanno votato a favore della partecipazione della nazionale norvegese contro i 121 contrari. La campagna contro i mondiali qatarioti era partita in Norvegia lo scorso febbraio dalla squadra di prima divisione Tromso IL: “Non possiamo più stare a guardare persone che muoiono in nome del calcio”, aveva detto il club, a cui aveva fatto seguito la dichiarazione di Tom Hogli, ex calciatore e responsabile delle relazioni pubbliche della squadra: “Non c’è dubbio che questo Mondiale non avrebbe mai dovuto premiare il Qatar. Le condizioni lì sono abominevoli e molti hanno perso la vita”.
Una realtà ampiamente denunciata in questi anni e che ha trovato il sostegno della Norwegian Supporters Alliance, che tramite il portavoce Ole Kristian Sandvik, in vista del voto della Federcalcio, aveva parlato di partite “giocate in un cimitero”. Di stesso avviso la popolazione norvegesi: secondo un sondaggio del quotidiano VG di questa settimana, il 49% dei norvegesi sosteneva il boicottaggio, contro il 29% di contrari. Il riferimento è ai lavoratori migranti, per lo più dal sud est asiatico che in preparazione del Mondiale del 2022 sono morti nei cantieri qatarioti, tra abusi dei diritti umani e mancanza di sicurezza.
Una situazione che non ha particolarmente colpito la Fifa che, dopo aver consegnato la Coppa del Mondo al Qatar, insiste nel parlare di “progressi significati in poco tempo” (dichiarazioni del presidente Infantino del mese scorso). La stessa narrazione di Doha che da anni parla di miglioramento delle condizioni di lavoro, di maggiori protezioni contro il caldo insopportabile delle ore lavorative e anche dell’introduzione del salario minimo, tutte “conquiste” che si sono rivelate parziali o scarsamente applicate.
E con le infrastrutture calcistiche quasi pronte (pochi giorni fa a Fox Sport l’ambasciatore qatariota in Messico, Mohamed bin Jassim al-Kuwari, ha dichiarato che gli stadi sono pronti al 90%), restano i numeri raccolti da quotidiani e organizzazioni dei diritti umani. Quelli più impressionanti sono quelli pubblicati dal britannico Guardian lo scorso febbraio: in dieci anni, dal 2011 al 2020, sono morti nei cantieri di Doha almeno 6.751 migranti. Una media di 675 all’anno, 56 al mese, 1,9 al giorno.
Si tratta di lavoratori stranieri, circa due milioni, per lo più provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh, Sri Lanka, Filippine, Kenya, a cui è stata affidata la realizzazione di sette stadi, un aeroporto e una città. Lavorano con temperature che raggiungono i 45 gradi, spesso di più, fino a dieci ore al giorno. Temperature impossibili da sopportare per il corpo di un essere umano: il 70% delle morti bianche sono state provocate da infarto o crisi respiratoria, dovute al collasso del sistema cardiovascolare.
Seppure si tratti di giovani tra i 25 e i 35 anni, gli esperti ritengono normale che temperature elevate e il lavoro sotto il sole durante la giornata provochino infarti anche a persone in salute. In tale contesto, l’abolizione del sistema della kafala nel settembre 2020 da parte di Doha e l’ordine di non far lavorare i migranti tra le 11.30 e le 15 durante l’estate non sono misure sufficienti. Sia perché non hanno condotto a risultati apprezzabili, sia perché non sono sempre applicate.
Una carenza che riguarda soprattutto il sistema dello sponsor: il migrante può ottenere il permesso di soggiorno solo tramite un’azienda o un cittadino qatariota che entra in possesso del suo passaporto e garantisce per lui. La kafala è molto diffusa nel Golfo e in Libano, assumendo una ovvia natura di semi schiavitù e impedendo al lavoratore di lasciare il posto di lavoro in caso di violazioni, abusi o mancati pagamenti. Nena News