A quattro anni dall’uccisione del comandante delle Sdf, sul fronte di Manbij, Davide Grasso ne ripercorre la vita e il ruolo centrale all’interno delle unità curdo-arabe Sdf. E il lascito politico
di Davide Grasso
Roma, 4 giugno 2020, Nena News – Erano i primi di giugno del 2016 quando ci giunse la notizia in Siria, sul fronte di Ain Issa, nei pressi di Raqqa, che Feysal Abu Leyla – uno dei nostri comandanti nelle Forze siriane democratiche (Sdf) – era caduto martire. “Martire”, nelle nostre forze, non aveva un significato religioso, ma civile, simile a quello che il Cln e poi la repubblica hanno dato ai martiri della resistenza italiana. Io ero arrivato su quel fronte da pochi giorni ed ero lontano dalle operazioni che si svolgevano nelle campagne di Aleppo, attorno alla città di Manbij. Con centomila abitanti Manbij era lo snodo fondamentale sulla strada tra Raqqa, capitale del “califfato” fondato dall’Isis, e Gaziantep, in Turchia: garantiva l’unico collegamento rimasto tra i territori dell’Isis e quelli di Erdogan. Per questo la strada che l’attraversava era detta “autostrada del jihad” e la città era chiamata dai miliziani del califfato “Little London” per l’alto numero di foreign fighter che vi arrivavano da tutto il mondo attraverso Istanbul, esprimendosi in inglese anziché in arabo.
L’attacco delle Sdf a Manbij era cominciato la notte del 31 maggio. Abu Leyla guidava l’assalto, ed era stato colpito alla testa da un proiettile nel terzo giorno degli scontri. Trasportato in elicottero all’ospedale di Sulaimaniya, in Iraq, era spirato dopo due giorni, il 5 giugno. Una grande commozione si diffuse, alla notizia, tra le nostre unità. L’offensiva per Manbij fu rinominata “Operazione Abu Leyla”.
La figura di Abu Leyla è leggendaria nella Siria del nord. Essa non è molto conosciuta in Italia e in Europa, ma la sua vita può aiutarci a comprendere cosa è veramente accaduto alla Siria in questi lunghi e terribili anni.
Abu Leyla nell’Esercito libero siriano
Prima dell’insurrezione popolare del 2011 Abu Leyla era un meccanico d’auto, nato a Kobane e cresciuto a Manbij da una famiglia metà curda e metà araba. Sposatosi, aveva avuto quattro figlie, di cui la prima si chiamava Leyla. Da qui il suo nome: nel mondo arabo è frequente che un uomo sia identificato dal nome della primogenita: “Abu Leyla” altro non vuol dire che “il padre di Leyla”. Feysal era un credente, musulmano e sunnita. Dopo la repressione brutale del regime contro la popolazione in rivolta lasciò la sua officina per imbracciare il Kalashnikov. Credeva nella necessità dell’autodifesa popolare, sebbene ciò significasse già provocare una spaccatura nella rivolta siriana. Contrariamente a chi si schierò per la non violenza (invocando spesso, d’altra parte, un intervento internazionale) Abu Leyla fu tra quelli che si ribellarono con le armi alla repressione ordinata dal presidente. Entrò infatti nel gruppo Liwa Ahrar Souriya (Brigata dei Liberi di Siria), attivo nei dintorni di Aleppo.
I Liberi di Siria erano composti da arabi, curdi e turcomanni e si riconobbero nell’eterogenea unione di formazioni denominata “Esercito libero siriano” (Fsa) da un gruppo di ufficiali disertori protetti dalla Turchia di Erdogan. Quest’ultima forniva viveri, soldi, medicinali e soprattutto armi, coadiuvata da un gigante finanziario qual è il Qatar. Il comandante dei Liberi di Siria, tuttavia – Ahmad Afash – fu presto contattato da finanziatori sauditi disposti a dare al gruppo cifre ancora più grandi, che accettò. In quel momento cruciale i gruppi armati si moltiplicavano anche perché esisteva una concorrenza tra l’asse saudita-emiratino e quello turco-qatariota nel comprarseli al miglior prezzo. Tanta gente si è arricchita in modo inimmaginabile in quei mesi, sfruttando questa intromissione internazionale nel paese che lo gettò nel caos. Ahmad Afash fu uno di questi. Abu Leyla, miliziano del suo gruppo, cominciò ad assistere al rapido processo di corruzione della banda, che arrivò a rendersi responsabile di saccheggi e prevaricazioni nei villaggi e nei quartieri di Aleppo.
Allora Feysal ebbe il suo primo incontro con un mondo del tutto diverso, quello delle Unità di protezione popolare curde d’ispirazione socialista (Ypg). Quel primo incontro fu però uno scontro. Nell’ottobre del 2012 i suoi Liberi di Siria si scontrarono con le Ypg cercando di assumere il controllo, con altre bande, del principale quartiere curdo di Aleppo, Shex Maxsud. Le Ypg, forti dell’appoggio di una popolazione che temeva le scorribande dei banditi, resistettero. Il gruppo di Abu Leyla rapì allora oltre cento civili per negoziare. È possibile che già allora Abu Leyla, per metà curdo, sia rimasto affascinato dal valore etico e militare delle Ypg. Nell’Fsa c’erano battaglioni curdi, come la Brigata Azadi o Liwa Saladin Ayubi, ma rispondevano alla destra nazionalista, conservatrice e religiosa curda, diretta dal magnate Massud Barzani dal Kurdistan iracheno, fedele vassallo della Turchia fin dagli anni Novanta. Non è dato sapere quanto le questioni politiche interne al Kurdistan interessassero Feysal, che si riconosceva pienamente nell’orizzonte siriano. Altre questioni sarebbero però presto giunte a preoccuparlo.
Veniva fondata in quei mesi in Qatar, sotto gli auspici di Turchia e Stati Uniti, la Coalizione nazionale siriana (Cns), guidata dalla branca siriana dei Fratelli musulmani, il più potente movimento mondiale per la restaurazione della legge islamica. L’istituzione era concepita da Ankara e dai paesi Nato come possibile rappresentanza politica delle bande armate che esponevano il vessillo dell’Fsa, per creare una Siria islamizzata quale sostanziale protettorato di Doha e Ankara. L’Arabia Saudita e i suoi alleati, tuttavia, non erano d’accordo. Volevano una fetta della torta, e osservavano con grande apprensione l’espansione internazionale dei Fratelli musulmani, all’epoca al potere non solo in Qatar, ma anche nell’Egitto di Morsi e nel Sudan di Al-Bashir. La Fratellanza poteva destabilizzare socialmente la stessa penisola arabica sotto la spinta del Qatar. Per questo, quando fu chiesto alle bande armate di Aleppo di riconoscere la Cns filo-turca, i Liberi di Siria si rifiutarono di farlo, dichiarando di lottare per la trasformazione della Siria in uno Stato islamico.
Abu Leyla, comandante dai due volti
Abu Leyla era lontano anni luce da una simile prospettiva. Sempre più gli sembrava che, nel giro di un anno, il suo gruppo fosse arrivato ad incarnare sempre meno le ragioni che lo avevano spinto a battersi per il suo popolo. Fondò allora una nuova unità in seno ai Liberi di Siria, prendendone il comando: Jabhat al-Akrad o Fronte curdo, che aveva al suo interno anche combattenti arabi e turcomanni. I detrattori sostengono che Abu Leyla fosse già segretamente in contatto con le Ypg, e che Jabhat al-Akrad altro non fosse che un’operazione sotto copertura concepita da queste ultime per infiltrarsi nell’Esercito libero e nel Consiglio militare rivoluzionario di Aleppo, che era monitorato dalla Turchia. Quel che è certo è che il nuovo gruppo ebbe successo, aggregando combattenti e decretando il declino dei gruppi della destra curda nelle campagne di Aleppo.
È vero che quando le bande filo-turche dell’Fsa coordinarono, a inizio 2013, un assalto contro le Ypg ad Afrin, poco più a nord, il Fronte di Abu Leyla disertò l’operazione e cambiò fronte, unendosi alle Ypg. Ciò segnò il distacco tra il Fronte curdo e i Liberi di Siria, ma non tra esso e il sempre più disgregato arcipelago dell’Fsa. In seguito all’episodio di Afrin il Fronte curdo fu però espulso dal Consiglio rivoluzionario di Aleppo. In quei mesi emergeva d’altra parte sempre più, in estremistica alternativa ad esso, l’ala siriana di Al-Qaeda, Jabhat al-Nusra, maggiormente disciplinata e assertiva sul piano militare. Il gruppo, aiutato da quelli che divennero suoi satelliti, le bande dell’Fsa, si impadronì della provincia di Raqqa., dove l’esercito siriano fu sconfitto e i suoi soldati barbaramente trucidati anche una volta fatti prigionieri.
In seno ad Al-Qaeda si sviluppò l’Isis, che spingeva per l’immediata dichiarazione di uno Stato islamico di cui pretendeva il comando, creando un dissidio tra la massa di miliziani jihadisti giunti ormai in Siria da tutto il mondo. In quei mesi Abu Leyla condusse operazioni sotto copertura nelle città di Jarablus e Manbij, uccidendo esponenti di spicco dell’Isis al comando di un piccolo manipolo del Fronte curdo, forse in contatto con le Ypg.
L’Isis, ulteriormente rafforzatosi sul piano economico e militare, attaccò nel 2014 tutti gli altri gruppi armati siriani, impadronendosi anche di gran parte dell’Iraq. Abu Leyla guidò il Fronte curdo nella resistenza contro gli attacchi dell’Isis a nord di Aleppo, e unì il suo gruppo ad altri gruppi dell’Fsa in quello che fu chiamato battaglione Shams ash-Shamal (Sole del nord). Il Fronte dovette però ripiegare nella città di Azaz, al confine con la Turchia, sotto la spinta dell’Isis, e Abu Leyla e i suoi dovettero qui convivere per mesi, non senza difficoltà, con gruppi filo-turchi assiepati in diversi quartieri. Giunse allora l’ottobre del 2014, e l’Isis attaccò Kobane.
Abu Leyla a Kobane
Quando Kobane si trovò sotto assedio, nell’autunno del 2014, diverse bande dell’Fsa vi avevano già trovato rifugio sotto la protezione delle Ypg. Abu Leyla non era certo l’unico ad aver imbracciato le armi per difendere il popolo dalle violenze di Assad, ma con in mente l’idea di una rivoluzione che conciliasse nazione, religione, fratellanza e libertà. Queste idee non si erano purtroppo conciliate con la realtà dei fatti. Alcune bande e molti individui cercavano in quella fase un’alternativa al declino inesorabile della rivoluzione siriana. La diffidenza nei confronti delle Ypg, affiancate dalle donne delle Ypj e accusate dagli agenti turchi di avere accordi segreti con Assad, fu da molti superata quando l’avanzata dell’Isis mise di fronte all’alternativa secca tra Ypg e califfato. Il movimento confederale protetto dalle Ypg aveva dichiarato fin dal 2011 di auspicare un’evoluzione democratica e federale in una Siria unita, e che per questo obiettivo era disposto a dialogare tanto con Damasco quanto con le opposizioni che si dimostrassero estranee al jihadismo.
Durante l’attacco a Kobane le Ypg formarono con i gruppi dell’Fsa presenti in città la cabina di comando “Vulcano dell’Eufrate”. Abu Leyla, data la sua pregressa e peculiare esperienza politico-militare, era ideale per un compito simile. Ebbe un ruolo importante nell’accordo, del tutto inedito e destinato ad avere un impatto determinante sul seguito della guerra. Bisogna sottolineare che la forza politica di Abu Leyla non derivava soltanto dai suoi contatti ramificati nell’Fsa, dal suo credito presso le Ypg, dalle informazioni sul mondo islamista di cui era in possesso o da quelle sugli emissari turchi che magari aveva incontrato nel Consiglio di Aleppo, preziose in fatto di intelligence; si fondava in primo luogo sulla dedizione militare che aveva fino a quel momento dimostrato. In una guerra brutale come quella siriana le persone tendono a fidarsi le une delle altre per le dimostrazioni concrete di affidabilità e coraggio. Se non proprio fiducia, questo fattore produce quanto meno deferenza. Nessuno poteva dubitare di Abu Leyla sotto questo profilo. Rapidamente crebbe il suo credito politico.
La battaglia di Kobane fu, come noto, atroce. Durante le prime settimane Abu Leyla fu ferito diverse volte da proiettili e schegge, ma ciò non gli impedì di farsi medicare e tornare a combattere. Questo è, sia detto per inciso, uno dei tratti maggiormente apprezzati nelle Ypg: non abbandonare il fronte quando se ne avrebbe bisogno o tutto il diritto; superare finanche il proprio interesse legittimo, a volte persino la logica o l’istinto di sopravvivenza pur di non cessare di affrontare il nemico. Abu Leyla conquistò il cuore di tutti, arabi e curdi, siriani e stranieri, pii musulmani e vecchi comunisti.
Quando poche strade restavano sotto il controllo delle Ypg e il mondo le dava per spacciate, continuava a riempire ogni istante di pausa negli scontri con risate e canzoni. Divenne pure celebre a livello internazionale per un filmato che lo ritraeva intento a salvare un miliziano dell’Isis intrappolato nelle macerie. Erano i giorni dell’inedito intervento degli Stati Uniti in favore delle Ypg con bombardamenti sulle posizioni dell’Isis. Durante il cruciale contrattacco confederale di fine novembre, Abu Leyla fu ferito alle gambe da una bomba a mano e trasportato in ospedale.
Ristabilitosi, riprese le offensive contro il califfato in rotta, nelle province di Raqqa e Hasakah, nel 2015. Ferito nuovamente a una gamba durante un’operazione, si trovò sul letto della sua casa a Kobane a giugno, quando un commando di miliziani dell’Isis, travestiti con uniformi e sciarpe delle Ypg, fece irruzione in città sparando all’impazzata su uomini, donne e bambini per le strade, in una sorta di anticipazione siriana degli attentati del Bataclan che il gruppo stava preparando per l’autunno successivo a Parigi. Sentendo ciò che accadeva Abu Leyla si alzò e, aiutandosi con le stampelle, riuscì a raggiungere il balcone. Sedutosi su una sedia appoggiò alla balaustra la mitragliatrice Pks e sperò ripetutamente contro i miliziani che si accanivano sulla popolazione. Questo episodio, filmato con un telefonino da un compagno che era con lui, ebbe l’effetto che si può immaginare sulla popolazione.
(continua)