Viaggio nella regione curda a nord della Siria: la battaglia per la sopravvivenza, la lotta all’Isis e la difesa del progetto di democrazia diretta.
foto e testo di Silvia Todeschini – Resistenza quotidiana
Rojava, 22 dicembre 2014, Nena News – Al campo Newroz pioviggina. Anzi piove. Ci sono pozzanghere e fango. Bisogna stare attenti a non scivolare nel fango, e certe volte non è facile, soprattutto quando non c’è corrente e ci si muove con la luce del cellulare.
Alan è uno degli abitanti del Rojava che qui si da da fare nel comitato per le relazioni. Spiega che tutto è organizzato in comitati: c’è la scuola dove i ragazzi imparano in curdo, ci sono le attività organizzate dal centro culturale per insegnare ai bambini il canto e la danza, c’è la tenda delle donne dove si studia la storia delle donne e del Kurdistan, c’è la tenda degli uomini dove si studia la storia del Kurdistan e si può vedere la televisione, c’è il comitato per i servizi che si occupa di organizzare i lavori necessari nel campo, eccetera, eccetera. Nuri, invece, è originario di Shengal e parla inglese molto bene, portandomi in giro nel campo e traducendo le interviste, ma non dimenticando di raccontare la storia della sua gente.
Quando mi porta nella tenda della sua famiglia per mangiare e dormire e mi domanda: “Hai presente un libro che si chiama ‘Il Principe’, scritto da Macchiavelli? In quel libro c’è una frase: ‘Il fine giustifica i mezzi’. Ecco, noi siamo i mezzi sacrificati per il fine dell’occidente e degli altri Stati qui attorno. Però non siamo stupidi, no, noi capiamo cosa succede”.
La fuga da Shengal
Racconta Nuri che “mentre i Peshmerga, codardi, se ne scappavano dalla nostra città, le bande dell’ISIS rapivano le nostre donne, anche ragazzine di 9-12 anni, e le hanno portate via per venderle, oppure per violentarle”. Mi guarda negli occhi con degli occhi neri – Nuri ha esattamente la mia età – e mi domanda “hai un’idea di cosa significhi sapere che le ragazze della tua gente sono state rapite per essere violentate o vendute? A migliaia. Tutti qui ti racconterebbero la stessa storia, ma non in molti hanno la forza di farlo. Fa male a pensarci, ogni volta che ci penso sento come una pietra nel petto, mi si blocca il pensiero. Sono state portate a Raqqa, o vendute in Arabia Saudita o nello Yemen. Violentate e vendute, le donne yazide nelle mani di quegli sporchi individui. Se chiudo gli occhi sento le loro urla nelle orecchie. Quando siamo scappati nelle montagne, alcune si sono gettate dalle alture pur di non andare in mano agli uomini dell’ISIS. So che ad una di loro hanno tagliato il seno perché si è rifiutata di andare in sposa ad un uomo dell’ISIS, l’hanno lasciata sanguinare a morte, ed hanno portato le altre a vedere. Le nostre donne stavano urlando talmente forte da far piangere gli angeli nel cielo”.
Parlando di angeli, Nouri spiega che secondo la loro religione, monoteista e antica più di 6000 anni, c’è un unico Dio e sette angeli, e conclude “persone che credono in Dio non possono fare questo. Per loro, Dio è solo uno slogan”. Parlando di religione, poi, spiega come durante il genocidio degli armeni la sua gente abbia offerto rifugio a questo popolo di religione cristiana. “E i cristiani, adesso, dove sono? Che penserebbe il Papa se vedesse questo? Che fanno gli Stati Uniti, che pretendono così spesso di agire in nome di Dio?”.
Poi racconta della fuga verso le montagne: “Abbiamo lasciato indietro cadaveri dei nostri cari senza poter dare loro nemmeno una degna sepoltura, mentre altri sono stati ammazzati mentre scappavano. Durante il viaggio non c’era cibo o acqua, molti bambini sono morti. Molti sono stati costretti a lasciare i propri nonni a casa, perché non riuscivano a trasportarli nelle montagne, ci sono migliaia di anziani ora nelle mani dell’ISIS; addirittura alcune donne hanno partorito durante il tragitto ma non sono riuscite a portare i propri figli con sé, perché dovevano prendersi cura degli altri, non ce la facevano. Poi le montagne ci hanno nascosto e ci hanno protetto, è come se i monti fossero una nostra seconda madre. Lassù ci sono ancora 1700-2000 famiglie, sono isolate e non riescono a scappare. Il fine giustifica i mezzi, e noi siamo i mezzi sacrificabili”.
“Lì a difendere la nostra gente rimasta sulle montagne ci sono le YPJ-YPG (unità armate del Rojava) le HPG (gruppi di guerriglia del PKK – dalle montagne del Kurdistan turco) e le YBȘ (Yakinen Brexwedana Șingal – Unità di resistenza di Șingal), ed io accuso non solo l’ISIS e le tribù iraqene che ci hanno attaccato, ma anche il KRG (curdi iraqeni) che non ci hanno difeso, coloro che finanziano l’ISIS e comperano il suo petrolio, coloro che lo hanno creato, coloro che ci considerano solo degli espedienti per i loro piani nel medio oriente: coloro per i quali siamo i mezzi giustificati da un fine che non ci riguarda”.
Dopo aver spiegato che i rifugiati yazidi di Shingal non si trovano solo in questo campo profughi, ma anche in Turchia, Georgia e Armenia, si raccomanda che scriva una frase sotto dettatura: “Noi non accusiamo l’ISIS, lui fa ciò che vuole, noi accusiamo voi che siete Paesi ed organizzazioni grosse e non fate il possibile. Voi potete fare molte cose!”.
Il campo Newroz
Dopo la fuga, circa 6000 abitanti della zona di Shingal sono giunti appunto al campo Newroz, in Rojava, cantone di Gizira. Sono circa 700 famiglie Yazide e una ventina di famiglie di origine araba. La copertura delle tende è fornita dall’UNHCR, ed è gestito dallo stesso ente in collaborazione con il cantone di Gizira. Nelle strade tra le tende non c’è nulla che freni il fango, a parte qualche grumo di sassi qui e li. Alcuni bambini fortunati hanno degli stivali di plastica qualche taglia troppo grandi, qualche altro meno fortunato ha solo delle ciabatte.
La pavimentazione delle tende consiste in alcuni teli di nylon e tappeti, mentre la copertura è fatta di materiale impermeabile ma infiammabile (è già successo che una tenda andasse a fuoco, mi spiegano al campo), e privo di strati isolanti di cui invece sono dotate per esempio le tende dei campi profughi di Pirsus-Suruc. Non c’è riscaldamento all’interno delle tende, e di notte fa freddo: l’UNHCR fornisce coperte di pile che vengono usate non solo per scaldarsi ma anche per dividere in scomparti l’interno delle tende e in alcuni casi cucite per farne vestiti invernali. Il pile però non è un buon isolante dal terreno e i sottili materassi di gommapiuma forniti nemmeno: così, alcune donne pettinano lana per farne materassi che possano isolare dal pavimento freddo durante l’inverno che sta arrivando, e che mi dicono che da queste parti porta anche la neve. Nei dintorni del campo ci sono piccoli gruppi di capre, e una recinzione per le galline: “Sono dei pochi profughi che sono riusciti a portarle con loro da Shengal – spiega Alan – ma dove vivevano ne avevano molte molte di più”.
Hussein viene da Derek, il paese vicino al campo Newroz, è yazida originario del Rojava. Spiega le attività portate avanti dal centro Dijla per l’arte e la cultura all’interno del campo: si effettuano corsi di musica, teatro, disegno, poesia, inglese, sport, danze tradizionali, e su come prendersi cura di se dal punto di vista psicosociale. “Ci sono tra i 220 e i 300 bambine/i e ragazze/i che partecipano alle lezioni. Il progetto è portato avanti con il finanziamento di Save the Children, ma sono molto lenti nel mandarci il materiale e non è sufficiente… come vedi i lavori per la costruzione dei servizi sanitari (cioè una piccola stanza che dovrebbe ospitare un water – che qui è sostanzialmente un buco nel terreno) sono ancora in corso”.
Altri insegnanti che lavorano qui mi spiegano che Save The Children li paga per questo che è certamente un lavoro a tempo pieno, e che lo “stipendio” consiste in 190 dollari al mese. È da sottolineare che non tutti gli insegnanti sono Yazidi, e che dall’altro lato molti tra di essi sono anche gli profughi che abitano il campo. Quindi, mentre pochi metri più in la una tenda più grande ospita le lezioni della scuola di curdo, qui lo scopo principale è fornire supporto psicosociale ai ragazzi e alle ragazze: “Vogliamo che queste e questi giovani passino dei momenti felici, per poter dimenticare per un momento quello che hanno passato; e vogliamo continuare a tramandare loro la cultura Yazida perché anche se si trovano lontano da casa non si scordino delle loro origini. Con questa gente che ha necessità di tutto – dal cibo a un tetto dove dormire – noi creiamo vita dalla morte”.
Rokan, al centro per la salute, spiega che è volontaria della mezzaluna rossa curda: “Questa mattina sono stati distribuiti i vaccini contro e paralisi infantili, sono stati dati ai bambini e bambine con età che va da un giorno a 6 anni. Qui non ci occupiamo solo di distribuire medicine e cure mediche, ma anche pannolini, assorbenti, latte in polvere per i neonati, e sacchi per le immondizie. Abbiamo necessità di medicine contro le infezioni, contro il raffreddore, antibiotici, analgesici, per i problemi digestivi e contro l’ipertensione – spiega – La maggior parte di queste riesce ad arrivare dall’Europa o da altri Paesi per vie non legali”.
Infatti il Rojava è sottoposto ad un embargo da parte delle forze o degli Stati che lo circondano: non può commerciare attraverso la Turchia (come si può facilmente immaginare, dato il supporto di quest’ultima verso l’ISIS e la sua ostilità verso il popolo curdo), non può ovviamente commerciare con il resto della Siria, e anche il confine con la regione curda dell’Iraq è chiuso. Rosa spiega che anche a causa di questo è prevista una crisi economica pesantissima nel prossimo anno in tutto il Rojava, tale per cui sarà una sfida importante garantire i servizi essenziali, quali per esempio la scuola gratuita e la sanità, e che questa crisi si andrà a sommare alla crisi psicosociale dovuta alla guerra e alle perdite della resistenza curda.
Prima di addormentarmi nella tenda di fianco alle sue sorelle, domando a Nuri: “Senti, ma è vero che ci sono anche due donne Yazide che si sono unite alle YPJ?”. E lui risponde: “No, non due, molte di più. Io spero che un giorno avremo anche noi una nostra unità armata composta di donne”. Nena News