A quattro anni dall’uccisione del comandante delle Sdf, sul fronte di Ain Issa, Davide Grasso ne ripercorre la vita e il ruolo centrale all’interno delle unità curdo-arabe Sdf. E il lascito politico
di Davide Grasso
Roma, 5 giugno 2020, Nena News – (la prima parte qui)
Abu Leyla e le Forze siriane democratiche
Quattro anni dopo l’inizio dell’insurrezione contro Assad e la sua decisione di trasformarsi da meccanico in combattente molte cose erano cambiate in Siria, anzi si erano decisamente complicate. Sapeva ormai che non avrebbe avuto senso combattere senza una chiara idea politica alle spalle. Per questo alla sua radicata amicizia con le comandanti e i comandanti delle Ypj-Ypg fece seguito la lettura dei libri di Abdullah Öcalan, filosofo curdo e fondatore del Pkk, grazie al quale inquadrò la sua concezione della rivoluzione siriana.
Intervistato da una giornalista per le strade di una città durante una battaglia, dichiarò che combatteva “per una Siria non islamica, bensì democratica”, aggiungendo con grande semplicità: “una Siria libera!”. Non era forse ciò che era stato detto fin dall’inizio? In quel periodo Abu Leyla assunse il comando del suo coordinamento militare, il Sole del nord, accompagnandolo verso un’alleanza con altre formazioni dell’Fsa deluse dalle derive integraliste dell’insurrezione. L’alleanza prese il nome di Jaish al-Thuwaar, “Esercito dei rivoluzionari”, e univa ormai migliaia di combattenti nella provincia di Aleppo e nella Siria occidentale.
L’alleanza jihadista diretta da Al-Qaeda ad Aleppo e Idlib, Jaish al-Fatah (“Esercito della conquista”), dichiarò subito guerra al nuovo esercito di Abu Leyla, percependo il pericolo rappresentato dalla sua operazione politica. Scontri tra i “conquistatori” islamisti e i “rivoluzionari” secolari si diffusero in molte città nella primavera del 2015. Sebbene si trattasse di un evento drammatico, Abu Leyla era riuscito a portare allo scoperto una lacerazione da sempre presente nelle bande armate siriane: si combatteva per una maggiore o per una minore libertà? Si combatteva per la democrazia e la convivenza tra tutti i siriani o per l’uniformazione violenta e l’imposizione religiosa in cui soltanto alcuni si riconoscevano?
Le unità dell’Esercito dei rivoluzionari, isolate e in difficoltà in gran parte del sud-ovest, si ritirarono nel Rojava curdo, dove formarono nell’ottobre 2015 con le Ypg, il Consiglio militare siriaco (espressione degli assiri cristiani vicini al partito di sinistra dell’Unione siriaca) e altri gruppi minori le Forze siriane democratiche: era ormai il più grande esercito popolare e rivoluzionario del Medio oriente, con quasi centomila combattenti tra uomini e donne di diverse lingue, credenze e stili di vita. Le Sdf siglarono un fondamentale patto militare con la Coalizione internazionale contro l’Isis appena creata dagli Stati Uniti di Obama. Questo patto prevedeva supporto aereo per le operazioni che le Sdf avessero intrapreso contro il califfato. Il nuovo esercito popolare iniziò subito, liberando la diga di Tishrin e le città di Al-Hol e Al-Shaddade.
I mesi successivi furono caratterizzati da uno stato d’attesa. Intense consultazioni erano in corso tra Sdf ed emissari americani. Questi ultimi insistevano per attaccare Raqqa, un obiettivo prematuro sul piano politico e su quello militare. Sul piano politico le Sdf sapevano che, una volta sconfitto o radicalmente indebolito l’Isis, avrebbero perduto il supporto militare internazionale. Per questo intendevano anzitutto assicurarsi l’unificazione del nord attraverso il congiungimento dei cantoni confederali di Kobane e Afrin, divisi dall’autostrada del jihad compresa tra Manbij, Jarablus e Gaziantep. L’esistenza di questa rotta turco-siriana a disposizione dell’Isis rendeva inoltre irrazionale muovere su Raqqa anche sul piano militare. Occorreva strappare all’Isis la città di Abu Leyla.
Erdogan si opponeva strenuamente a un’operazione delle Sdf verso Manbij e Jarablus, che avrebbe portato il suo confine meridionale sotto il pieno controllo di una rivoluzione anti-islamista, per di più capeggiata dai curdi. Anche Obama avrebbe preferito permettere alla candidata democratica Hillary Clinton di sbandierare il ben noto nome di Raqqa alle presidenziali dell’autunno, anziché quello, del tutto sconosciuto all’elettorato, di Manbij. Si può solo immaginare quanto Feysal abbia contribuito in quei giorni a sostenere la risolutezza dei comandi delle Sdf, che restarono inamovibili su questo principio: prima Manbij, poi Raqqa. Sullo sfondo c’era un conflitto ancora oggi non risolto, a Washington, tra Casa Bianca e Pentagono: la prima incline all’accomodamento con la Turchia, il secondo sensibile a priorità strategiche che nell’ambito militare sconfinano nell’ideologia, oltre alla razionalità militare.
Senza le Sdf non era possibile né combattere, né sconfiggere il califfato. Per questo la determinazione delle Sdf pagò. Con grande irritazione di Erdogan, la Coalizione diede il via libera all’operazione su Manbij. Si approssimava il momento in cui Abu Leyla avrebbe contribuito a liberare la sua città. Di essa conosceva meglio di ogni altro caratteristiche urbane, sociali e politiche. Era cresciuto in quella città fin da bambino, ci aveva combattuto in campo aperto e clandestinamente. Non stupisce che gli fu riconosciuto il ruolo di comandante dell’operazione nel comando condiviso del Consiglio militare di Manbij. L’estenuante incertezza accumulata in quei mesi sull’obiettivo da attaccare fu trasformata da Sdf e Pentagono in un’utile opportunità di diversione: Anha News, sito web vicino alle Ypg, annunciò che le Sdf avrebbero presto attaccato Raqqa. L’annuncio fu rilanciato dall’enorme apparato mediatico dei paesi della Coalizione. L’aviazione statunitense lanciò addirittura volantini su Raqqa, invitando i civili ad evacuare la città. La notte del 31 maggio il comandante Abu Leyla, invece, oltrepassava ala testa di migliaia di combattenti l’Eufrate verso Manbij, davanti a una forza che aveva reso imponente.
Il martirio di Abu Leyla
Come detto, Abu Leyla fu colpito nei pressi di un villaggio al terzo giorno di operazioni. Le Forze siriane democratiche, su impulso delle Ypg, adottano uno schema offensivo considerato assurdo dagli eserciti regolari: la comandante o il comandante sono fisicamente alla testa delle donne e degli uomini che dirigono, tanto più se la situazione è disperata o rischiosa. I volontari occidentali nelle Ypg, soprattutto se ex militari, si mostravano increduli – l’ho già scritto altrove – di fronte a questo modo di combattere. Perché rischiare, o addirittura sacrificare, la donna o l’uomo più capaci, esperti, carismatici o valorosi?
La scelta può apparire premoderna, ma bisogna tener conto che la guerra di liberazione della Siria dall’Isis è stata modernissima in cielo, ma non certo in terra. I droni e i GPS sorvegliavano le operazioni, i dispositivi di intercettazione registravano ogni interazione digitale nel paese, ma ragazzi di diciotto anni si affrontavano strada per strada, a volte scala per scala, con armamenti, nel caso delle Sdf, la cui concezione risaliva a settant’anni prima. La Coalizione si è sempre ben guardata dal fornire ai suoi alleati temporanei armi moderne.
Porre il comandante in prima linea: una razionalità politica che diviene a suo modo, drammaticamente, pragmatica in quel contesto. Quei ragazzi non hanno creduto un solo istante che gli Stati Uniti, la Francia o l’Inghilterra fossero sopra le loro teste per aiutarli a vivere come avrebbero voluto. Sapevano che quella era una congiunzione astrale fragile e problematica, l’incontro di interessi contrapposti: quelli dei siriani, dannati in un mondo post-coloniale, e quelli, del tutto diversi, delle potenze internazionali. Per molti giovani curdi che hanno avuto le famiglie perseguitate, sterminate o torturate, nei decenni, da governi e polizie arabe, morire per città arabe non era inoltre precisamente intuitivo, e viceversa.
È pur necessario un motivo chiaro per dare la vita. Ai militanti curdi più convinti bastava sapere che era un altro passo verso la rivoluzione mondiale, la liberazione del Kurdistan e quella di Abdullah Öcalan; ma per quelle strade, dalla nostra parte, non c’erano soltanto militanti. C’erano curdi che non militavano nel partito e arabi che a malapena sapevano chi è Öcalan, o che non ne avevano sentito parlare bene se lo avevano sentito nominare.
Abu Leyla alla testa di tutte e tutti noi, con le nostre infinite differenze, come comandante e poi come martire: non facile da spiegare, forse facile da comprendere. Avanzò per primo e cadde davanti, all’inizio della battaglia. Sembrò a tutti noi che avesse fatto scudo all’intera rivoluzione con il suo stesso corpo. Può bastare come segnale di amicizia, condivisione e rifiuto del privilegio di cui si può disporre in una guerra? Può bastare. Eravamo ammutoliti, resi piccoli dalla sua figura, consapevoli di dover fare quel che restava.
Figlio di arabi e di curdi, quell’uomo aveva la Siria, e in verità molto più di essa, nel sangue che versava in ospedale. Incarnava l’unione politica impossibile che aveva generato negli anni, effetto quasi involontario di una perseveranza semplice e sofisticata a un tempo, genuina come le sue origini popolari; uomo-chiave di un evento inedito nella storia del Medio oriente. Era consapevole di questo, mentre moriva? Io ne sono assolutamente convinto. Era caduto alle porte della sua città, a pochi chilometri dalla sua officina. Il suo contributo per la liberazione di Manbij è andato ben oltre i colpi che ha sparato in quei primi tre giorni al di là dell’Eufrate.
Il lascito di Abu Leyla
Manbij, oggi, è una regione dell’Amministrazione democratica del nord-est, governata da strutture che assicurano pari partecipazione a tutte le comunità linguistiche e sensibilità religiose, attraverso assemblee popolari e congressi delle donne. Il jihadismo è perseguito e chi collabora con le fazioni jihadiste è arrestato. A un anno dalla battaglia la città era stata completamente ricostruita ed è oggi l’unica città dell’Amministrazione, che io sappia, ad esibire gigantografie che non ritraggono, come nei centri curdi, Abdullah Öcalan, ma un’altra persona: Feysal, padre di Leyla, la bambina cui aveva scritto da Kobane: «Questa è la nostra strada. È nostro dovere difendere, lavorare e combattere per il tuo futuro e per quello dei bambini come te, così che tu non possa affermare una volta cresciuta, come noi affermiamo, che i nostri padri e antenati non hanno fatto nulla per noi. Combatto per te e per le bambine come te. Perché in futuro tu, e tutti i bambini come te, possiate vivere liberi e sicuri in questo paese; questa rivoluzione è per te e per la nostra patria, la Siria. Come mi manchi, Leyla, amore mio Leyla, sarai orgogliosa di tuo padre, sia esso vivo o martire. Ti mando dei baci. Tuo padre Abu Leyla da Kobane».
Il 6 marzo 2019, mentre le Sdf lanciavano a Baghuz gli ultimi assalti al califfato agonizzante, di lì a poco sconfitto, sua figlia Leyla ha dichiarato in un’intervista: «Sono orgogliosa del martirio di mio padre, la mia nazione è stata liberata e il sogno dei mercenari dell’Isis è finito».
Dal dicembre 2018 Manbij è sotto costante assedio dell’esercito turco e delle sue milizie, in cui è accertata la presenza di ex membri dell’Isis. Dall’ottobre 2019, dopo l’invasione turco-jihadista di parte del Rojava, la presenza dimostratasi inaffidabile delle truppe di interposizione franco-statunitensi a Manbij è stata sostituita da quella di unità russo-siriane, con cui le Sdf hanno dovuto stringere un patto non meno denso di incognite per il futuro.
Heval Feysal, naturalmente, non sa nulla di tutto questo. Ha visto la speranza della rivoluzione siriana tradita ai suoi inizi, ma ha reso possibile la rinascita di quel sogno sotto una bandiera che ha superato un numero incredibile di barriere. È la prova che nel mare reso torbido dalla violenza e dall’ignoranza possono farsi strada la bellezza e l’intelligenza con la dedizione, la convinzione e la necessaria dose di spregiudicatezza. Nell’incredibile vicenda che lo ha visto protagonista ha impresso una direzione, accompagnandola fino alla sua massima potenza. Sarà sempre ricordato come il volto sorridente di questo inestimabile traguardo.