Nonostante il 95% della popolazione kosovara si dichiari di fede musulmana, i più devoti vengono spesso discriminati e associati al radicalismo. Una preoccupazione che ha anche provocato proteste contro la costruzione di una moschea finanziata dalla Turchia a Pristina.
di Marco Siragusa
Roma, 3 settembre 2020, Nena News - Il Kosovo è il paese europeo con la più alta percentuale di fedeli musulmani, pari a circa il 95% della popolazione. Una così alta presenza dell’Islam è facilmente comprensibile guardando la storia del paese: dominio ottomano per cinque secoli, dalla famosa battaglia della Piana dei Merli del 1389 fino alla Prima guerra balcanica nel 1912-13. Storicamente, l’Islam nei Balcani ha sempre assunto caratteri moderati ad eccezione dei periodi di conflitto più acceso. Negli ultimi anni si è però assistito ad un preoccupante ritorno della radicalizzazione di una parte della popolazione. Questo ha provocato una spaccatura tra “moderati” e “radicali”. I primi rappresentano i più “laicizzati”, coloro che praticano il proprio credo senza per questo manifestarlo apertamente con il proprio stile di vita. I secondi sono invece coloro che vorrebbero una società più vicina alla legge islamica, che manifestano apertamente la propria fede e che aderiscono alle correnti islamiste più radicali. Questi vengono spesso discriminati nella vita quotidiana, ad esempio per via delle lunghe barbe o per l’utilizzo del velo. Elementi che vengono visti dalla maggioranza della popolazione come estranei alla propria cultura.
Negli ultimi mesi queste due anime della società kosovara sono entrate ancora più in contrasto. Già durante il lockdown molti fedeli avevano chiesto al governo di riaprire le moschee. Lo scorso maggio, dopo il rifiuto delle autorità, un gruppo denominato “Pray in the Square” (Preghiamo in piazza) aveva organizzato, nel pieno rispetto delle norme sul distanziamento e l’uso della mascherina, una preghiera collettiva a Piazza Skanderberg a Pristina.
Nelle ultime settimane il dibattito è stato ulteriormente alimentato dalla vicenda riguardante l’edificazione di una nuova moschea nella capitale. La costruzione era già stata approvata nel 2012 ma il progetto era poi stato bloccato. Lo scorso 15 luglio il presidente Hashim Thaci ha deciso di far ripartire i lavori affermando che “nessuno in Kosovo deve sentirsi insultato, trascurato o privilegiato per motivi religiosi”. Una settimana dopo, alcuni ex esponenti dell’UCK (Esercito di liberazione del Kosovo), hanno organizzato una manifestazione contro la ripresa dei lavori. La protesta toccava due questioni principali. Una riguarda l’inutilità di costruire una nuova moschea. Per alcuni manifestanti sarebbe stato più utile costruire spazi culturali o avviare un processo di riqualificazione dell’area. L’altra, politicamente più significativa, si collegava al tentativo di attori esterni di utilizzare la religione per aumentare la propria influenza nel paese. La costruzione della moschea, i cui costi si aggirano intorno ai 40 milioni di euro, è stata infatti totalmente finanziata dalla Turchia. Per gli oppositori questo rappresenta un chiaro tentativo di ingerenza nella politica interna con la scusa della comune appartenenza religiosa. Ingerenza turca che non tutti vedono di buon grado in un paese da sempre apertamente vicino agli Stati Uniti e desideroso di aderire il prima possibile all’Unione Europea.
La vicenda della moschea porta con sé una questione ben più ampia che riguarda la radicalizzazione di alcune frange della società kosovara. Si stima che, su una popolazione di appena 1,8 milioni di persone, siano stati ben 400 i foreign fighters kosovari che si erano uniti all’ISIS sin dall’inizio di quella esperienza. Il numero più alto in Europa in rapporto alla popolazione. Di questi, circa 110 hanno fatto ritorno in patria.
Dati che dovrebbero costringere le istituzioni ad una seria riflessione. La prima domanda che sorge spontanea è perché così tanti giovani kosovari abbiano deciso di partire e rischiare la propria vita per lo Stato Islamico. Non esiste una risposta univoca a questa domanda ma esistono sicuramente una serie di fattori che rendono più comprensibile questa scelta. In un video ufficiale pubblicato nel 2015 sui canali dell’ISIS e intitolato “Honor is in Jihad. A message to the people of the Balkans”, un gruppo di combattenti inneggiava alla guerra santa contro gli infedeli. La particolarità di quel video risiedeva nei temi trattati. Non solo la critica all’infedeltà verso i precetti islamici o al decadimento dei costumi occidentali ma soprattutto questioni di carattere economico, sociale e politico. I jihadisti parlavano apertamente delle discriminazioni subite dai musulmani, dell’alto tasso di disoccupazione dei giovani, della mancanza di prospettive di vita, dell’assenza di qualsiasi riconoscimento della propria identità. La guerra santa portata avanti dallo Stato Islamico permetteva loro di trasformare la frustrazione in lotta, di credere di nuovo in qualcosa. Qui sta uno degli elementi fondamentali che occorre tenere in considerazione quando si parla di radicalizzazione delle comunità islamiche moderate. L’islam radicale è riuscito, almeno per alcuni, a coprire il vuoto lasciato dalla “fine delle ideologie”, dallo smembramento dei legami comunitari, sociali e delle appartenenze politiche.
L’altro elemento è rappresentato proprio dalle condizioni materiali in cui agiscono questi discorsi. Il “combattente medio” kosovaro partito per la Siria era giovane, disoccupato, povero e profondamente deluso dal processo di democratizzazione del paese. In Kosovo, la disoccupazione si aggira intorno al 25%, con quella giovanile oltre il 52%. Non è quindi difficile comprendere come la promessa di una nuova vita, più ricca dal punto di vista materiale e spirituale, abbia fatto presa su tanti giovani.
Come dimostra il caso della moschea finanziata dalla Turchia, l’elemento religioso viene spesso enfatizzato da attori esterni per aumentare la propria influenza nel paese o, al contrario, per fornire un’immagine del Kosovo come paese islamista da tenere fuori dai confini dell’Unione Europea. Due facce della stessa medaglia che rischiano di alimentare una spaccatura interna e un’ulteriore radicalizzazione. Proprio quello che non serve al Kosovo in questa delicata fase storica. Nena News