Nonostante la fama delle rivolte di cinque anni fa, la regione mediorientale è ancora la meno toccata dall’uso dei social media rispetto alla media mondiale. Crescono i meno “politicamente impegnati” Instagram e Whatsapp, calano Facebook e Twitter, letteralmente invasi da politici e religiosi
di Giorgia Grifoni
Roma, 8 febbraio 2016, Nena News - Ricordate la primavera egiziana, veicolata da Facebook e Twitter? Dimenticatela. Non tanto perché al Cairo la morsa del regime è talmente stretta da non permettere più a nessuno di azzardarsi in strada a manifestare. Piuttosto, perché l’evoluzione dei social media nella regione MENA (Medio Oriente e Nord Africa) sembra stia seguendo traiettorie peculiari che, combinate ai fattori socio-culturali esistenti, lasciano spazio a pochi dei cambiamenti sperati dai giovani delle cosiddette primavere del 2011. O, perlomeno, sotto una forma diversa.
Nonostante la fama delle rivolte di cinque anni fa, la regione mediorientale è ancora la meno toccata dall’uso dei social media rispetto alla media mondiale. Lo rivela uno studio diffuso il mese scorso da Daniel Radcliffe, docente di Giornalismo all’Università dell’Oregon, editorialista esperto di social network e tecnologia per BBC, Huffington Post e Guardian. Radcliffe inizia il suo studio mostrando che, con 41 milioni di account attivi a gennaio 2015, la regione si piazzava terzultima nella classifica globale seguita da Oceania e Asia Centrale. Il tasso di utenti attivi per popolazione era del 17 per cento, cosa che la declassava ulteriormente a seconda regione al mondo toccata dai social media, dopo l’Asia Centrale.
“Abbiamo sentito diverse discussioni sia in Medio Oriente che altrove – ha detto Radcliffe al portale Journalism.co.uk – circa rivoluzioni create dai social media, il che potrebbe essere un po’ un’esagerazione”. “Ma – ha aggiunto – questo può avere un impatto e vi è un grande interesse in quella parte del mondo, data la sua storia e quello che sta succedendo nello spazio sociale”. Insomma, movimenti sociali aiutati dai social sì, ma non tanto da essere un fenomeno esclusivo dell’area come descritto negli anni passati. E, soprattutto, non più di quella portata.
Ora, un anno dopo, i numeri salgono. Ma non nella stessa tendenza. Nuovi social crescono, vecchi social diminuiscono. Prendiamo il caso di Facebook. Il portale più famoso al mondo si attestava, nel 2015, al più diffuso nel cyberspazio della regione MENA. Con 80 milioni di utenti da Rabat a Teheran, era stato scelto dall’87 per cento della popolazione social dell’area. I dati a riguardo pubblicati nello studio di Radcliffe, diffusi inizialmente dal TNS Arab Social Media Report, mostrano che nei paesi in guerra o in cui continuano a esserci forti spinte di riforma dal basso, Facebook è ancora il mezzo più usato: dal 97 per cento degli utenti in Siria, 95 in Libano, 94 in Egitto, 93 in Libia e Yemen. L’Egitto, per numero di utenti, guida la classifica con 27 milioni di persone con un account Facebook.
Ma Facebook, come anche Twitter, sembrano cominciare a subire una leggera flessione in tutta l’area. E non solo perché la creatura di Mark Zuckerberg sembra relegare i mediorientali e i nordafricani a utenti di serie B, come mostra il suo servizio di Security Check implementato per gli abitanti di Parigi dopo gli attentati del 13 novembre scorso ma non per quelli di Beirut, che ne avevano subito uno devastante il giorno prima. La realtà è che gli utenti stanno migrando su altri social, meno “politici”, come Whatsapp e Instagram.
Le ragioni dell’allontanamento dai social più attivi politicamente sono molteplici: censure, regimi infiltrati negli account, politici e religiosi che si fanno spazio nei network fino a catalizzare l’attenzione di molti utenti, troll. Insomma, sfidare la repressione nella speranza di portare un cambiamento sociale è sempre più difficile online. La sola Turchia, per esempio, ha inviato a Twitter 477 richieste di rimozione di contenuti tra il primo luglio e il 31 dicembre 2014, più di tutte quelle ricevute dagli altri paesi messi insieme. Le misure punitive di alcuni regimi, poi, non invogliano assolutamente gli utenti a twittare contenuti considerati “sovversivi”: è il caso, ad esempio, dell’Arabia Saudita che, seppur ospitando il maggior numero di utenti Twitter dell’area MENA (53 per cento degli utenti social ha un account, seguiti dal 51 per cento degli emiratini), è il paese con il più basso numero di accessi giornalieri nell’intera regione. Il caso del blogger Raif Badawi, la cui pena, in ultima istanza, è stata “ridotta” a 800 frustate per aver “insultato l’Islam tramite canali elettronici” è emblematico.
Inoltre, se cinque anni fa i governi – soprattutto quelli dei regimi arabi autoritari – faticavano a seguire la miccia virtuale dell’attivismo popolare, ora la solfa è cambiata: non solo le pagine Facebook vengono individuate e i loro autori arrestati con molta più rapidità di prima, ma le autorità (e non) politiche e religiose hanno profili Twitter con cui invadono la blogosfera, facendo proselitismo e una concorrenza spietata ai blogger laici. Si prenda sempre l’esempio dell’Arabia Saudita, dove l’account Twitter più seguito è quello dell’imam non proprio liberale Muhammad al-Arifi. Oppure, guardiamo all’attività social dell’Isis: secondo uno studio del Brookings Institute dello scorso anno, almeno 46 mila account Twitter sono stati usati da sostenitori del cosiddetto Califfato. La maggioranza di loro è stata registrata proprio in Arabia Saudita, dove casualmente vengono arrestati e condannati solo gli oppositori della dinastia wahhabita e non gli apologi del jihadismo globale.
Inoltre, è arrivato il sovraffollamento social e la conseguente delusione per una blogosfera che cambia. Ed esce dai suoi binari originari. Lo ha spiegato bene Wael Ghonim, l’impiegato di Google diventato famoso per aver creato una pagina su Facebook che ha aiutato a portare milioni di egiziani in piazza nel gennaio 2011 contro Hosni Mubarak. In una recente conferenza TED da lui pubblicata e ripresa in un commento sul New York Times, Ghonim parla di “euforia svanita troppo presto”. “Non siamo riusciti – ha detto durante la conferenza – a costruire un consenso, e la lotta politica ha portato a un’intensa polarizzazione. I social media hanno solo amplificato la polarizzazione, facilitando la diffusione di disinformazione, voci, pettegolezzi e incitamenti all’odio. L’ambiente era tossico. Il mio mondo online era diventato un campo di battaglia pieno di troll, bugie, espressioni di odio”.
Ora, spiega Ghonim, c’è un mondo social fatto di discussioni sempre più brevi e arrabbiate, di non volontà di confronto con chi non è d’accordo con noi: semplicemente, lo si blocca o lo si smette di seguire. L’attenzione degli utenti della regione MENA meno polarizzati e istruiti, poi, spesso viene catalizzata dai religiosi, come spiega un approfondimento del quotidiano the Economist: “I chierici, tra cui anche salafiti-jihadisti – si legge nell’articolo – usano le applicazioni internet e i social media per diffondere il loro messaggio alla vasta fetta della popolazione che è devota e, come tale, potenzialmente suscettibile alle loro idee”. Per le rivoluzioni sociali sui social che hanno documentato, denunciato e assemblato le masse, insomma, sembra non esserci più spazio.
E infatti la tendenza della regione è tutta verso i social più “personali”e prettamente visivi, come Instagram e Whatsapp. Lo studio di Radcliffe mostra che gli utenti di questi due social continuano ad aumentare esponenzialmente in tutto il Medio Oriente. Sebbene ancora relativamente meno diffuso, il popolare servizio di modifica e condivisione di foto è letteralmente esploso nella regione, passando dall’8 per cento degli utenti di internet nel 2013 al 28 per cento nel 2015, come testimonia uno studio condotto dalla Northwestern Univeristy del Qatar. Quanto a Whatsapp, il social di messaggeria istantanea acquisito da Facebook nel 2014, è il più popolare tra il 41 per cento degli utenti della regione secondo lo studio TSN. Addirittura, è la piattaforma più usata in Libano, Qatar, Emirati e Arabia Saudita.
Proprio il Golfo sembra essere il calderone della diffusione della nuova messaggeria istantanea: una popolazione più ricca rispetto alla media dell’area, più giovane e più abituata a maneggiare smartphone sin dalla tenera età. Qui si sta sviluppando un mondo social dove le autorità riescono a penetrare più difficilmente, specie su Whatsapp. Le foto sono anche veicolo di incontri, in una cultura che spesso proibisce a giovani donne e uomini di frequentarsi liberamente. Gli svaghi interpersonali, che in questa fetta di mondo spesso comprendono solo un giro al centro commerciale, sulle piattaforme social si ampliano a dismisura. E come spesso avviene in altre situazioni figlie del mondo globalizzato, ci si rinchiude sempre di più nella propria bolla. In barba ai sogni di cambiamento del 2011. Nena News