L’indagine del portale Middle East Eye sul social che più di altri è stato considerato un sostegno alla rivoluzione di piazza Tahrir. Oggi gli attivisti lo denunciano: cancella i nostri profili
di Dania Akkad – Middle East Eye
(Traduzione di Elena Bellini)
Roma, 12 gennaio 2018, Nena News – [AGGIORNAMENTO 30/01/18 – Il 30 gennaio, Facebook ha risposto alla nostra richiesta di commento e ci ha detto che: Facebook non ha bloccato gli account citati nel nostro articolo perché chiesto dal governo egiziano; la società specifica ciò che è permesso e ciò che non lo è nei suoi Standard della Comunità; lo staff di Facebook ha preso i dovuti provvedimenti nei confronti degli account menzionati nel nostro articolo perché i loro contenuti violavano tali standard; le segnalazioni vengono analizzate da personale madrelingua che conosce il contesto locale per garantire che le politiche aziendali vengano applicate in modo corretto ad ogni situazione; le segnalazioni multiple non portano alla rimozione dei contenuti se non vi è violazione degli standard]
Middle East Eye rivela che, sette anni dopo aver contribuito a lanciare le rivoluzioni che portarono alla caduta del leader storico Hosni Mubarak, Facebook sta bloccando l’attivismo egiziano online. La piattaforma social era stata acclamata come elemento cruciale delle rivolte – chiamate anche “Facebook Revolution” – iniziate il 25 gennaio 2011, che hanno portato decine di migliaia di egiziani nelle strade, cambiando la storia del Paese.
Ma alcuni attivisti egiziani dell’opposizione, di ogni orientamento politico e ceto sociale, hanno dichiarato a Middle East Eye che l’anno scorso la società ha ripetutamente bannato le loro pagine e chiuso le loro dirette dopo ripetute segnalazioni dei contenuti da parte di troll.
Sawsan Gharib è un’agente immobiliare in Texas e portavoce Usa per il movimento egiziano del 6 Aprile, che ha avuto una certa influenza nelle rivolte che hanno portato alla cacciata di Mubarak. “Non posso comunicare con altri attivisti – dice – Non posso comunicare con la gente”. Gharib racconta che la sua pagina personale è stata chiusa più di sei volte, l’anno scorso. Anche una seconda pagina, aperta dopo i problemi con la prima, è stata ripetutamente bannata.
E anche Mubasher 6 Aprile o April 6th Direct, una delle pagine Facebook del 6 Aprile attraverso la quale il movimento condivideva notizie, foto e video, è stata rimossa lo scorso luglio. Il movimento, allora, ha aperto un’altra pagina, ma tutti i contenuti postati sulla prima sono andati persi. “Tutto perduto”, dice Gharib.
Secondo lei, alcuni troll filogovernativi hanno preso di mira gli attivisti e i movimenti come il suo, perché vogliono metterli a tacere. Lei partecipa regolarmente a programmi televisivi turchi ed egiziani, per parlare contro il governo e a condividere il suo punto di vista in gergo egiziano, attirando circa 7mila followers. “Anche un senzatetto riesce a capirmi”, dice.
Gharib è anche una degli amministratori di diverse pagine Facebook del 6 Aprile. Quando viene bannata, non solo resta disconnessa dai suoi amici e dalla sua famiglia, ma è anche tagliata fuori dalla gestione della pagina Facebook del movimento e non riesce ad organizzarsi in modo efficace con gli altri attivisti.
I troll “stanno tentando di legarci le mani in modo da impedirci di fare qualsiasi cosa – dice – Ho paura che la prossima volta verrò bannata a vita”.
Nonostante i ripetuti tentativi di contattare Facebook, la Sawsan e gli altri attivisti intervistati da MEE non hanno ricevuto altro che una risposta automatica dalla società. Ancora non capiscono per quale motivo i loro post abbiano violato i termini e le condizioni del gigante digitale, né cosa possano fare per evitare che le loro pagine continuino ad essere bannate.
Attraverso una compagnia di pubbliche relazioni assunta da Facebook, MEE ha inviato alla società di social media una lista di attivisti le cui pagine sono state bannate (con il consenso di tutti loro) e ha chiesto un commento, ma, fino a questo momento, non abbiamo avuto risposta.
Dov‘è che Facebook fallisce
Una delle principali ragioni di questi blocchi è una questione di proporzioni. Dal suo lancio, nel febbraio 2004, la piattaforma “The Facebook”, com’era chiamata all’inizio, è cresciuta in modo esponenziale.
La società è ben conscia del problema, secondo quanto dichiarato a MME dagli esperti, ma non ha investito abbastanza per garantire una moderazione dei contenuti, soprattutto in lingue diverse dall’inglese, proporzionale alla crescita degli ultimi 14 anni (oltre due milioni di utenti).
Le difficoltà per gli attivisti arabi cominciano nel momento in cui Facebook aumenta i propri sforzi, su richiesta dei governi, per chiudere le pagine di “estremisti”, ed è sempre più incline a chiudere le pagine per poter continuare a funzionare in Paesi come Israele e Vietnam.
Queste mosse – tra cui la recente decisione di chiudere la pagina del leader ceceno Ramzan Kadyrov – hanno messo Facebook sotto accusa: le sue politiche sarebbero poco chiare e non oggettive. Come hanno scritto Julia Angwin e Hannes Grassegger su Pro Publica, la società potrebbe benissimo star gestendo uno dei progetti di censura meno controllabili e di più vasta portata della storia.
Magra consolazione per gli attivisti egiziani, che si stanno rendendo conto che la piattaforma, una volta considerata simbolo della libertà di espressione e loro miglior mezzo di comunicazione, si è trasformata in un campo di battaglia controllato dalla società, in cui loro stanno perdendo.
“In Egitto, Facebook è il più importante, se non l’unico, mezzo di comunicazione teoricamente libero dal controllo del governo”, ha dichiarato Mohamed Okda, consulente politico egiziano e commentatore dei media. Okda sostiene di aver iniziato a notare l’aumento del blocco di pagine di attivisti la scorsa primavera e, secondo lui, migliaia di attivisti potrebbero esserne stati vittime. “Trovo spaventoso che Facebook, che dovrebbe servire a farci restare in contatto, stia usando il suo potere monopolistico per zittirci”.
‘Basta dar loro internet’
Molti ritengono che il lancio della pagina Facebook “Kullena Khaled Said” – “Siamo tutti Khaled Said” – sia stato il momento cruciale che ha galvanizzato le successive rivolte. Wael Ghonim, all’epoca direttore marketing di Google a Dubai, ha creato la pagina nel giugno 2010, dopo che la polizia egiziana aveva trascinato il blogger 28enne Khaled Said fuori da un internet café e l’aveva picchiato a morte in strada, di fronte a casa sua e della sua famiglia.
Sulla pagina, Ghonim ha scritto: “Oggi hanno ammazzato Khaled. Se non faccio niente per lui, domani toccherà a me”. La pagina ha dato origine a manifestazioni, che a loro volta hanno aperto la strada alla rivolta. E mentre esperti e attivisti iniziavano a chiedersi quale fosse il ruolo delle piattaforme social nelle rivolte regionali, il loro potere come strumenti di mobilitazione era ormai sotto gli occhi di tutti.
“Se vuoi liberare una società, basta darle internet,” ha dichiarato Ghonim alla Cnn l’11 febbraio 2011, giorno in cui Mubarak si è dimesso. “Internet ci aiuta a combattere la guerra dei media, che è fondamentalmente una guerra che il governo egiziano, il regime egiziano, ha giocato molto bene nel 1970, 1980 e 1990. Con l‘avvento di internet, non ci sarebbero riusciti”.
Per molti egiziani, soprattutto attivisti, Facebook è diventato, e continua ad essere, un mezzo di comunicazione fondamentale, con il 23% di utenti nella regione, come risulta da una ricerca del 2017 della Mohammed Bin Rashid School of Government di Dubai.
Le manifestazioni non autorizzate dalla polizia sono state vietate dal novembre del 2013. C’è stato anche un aumento della repressione sui media. Il social network era un luogo in cui gli egiziani potevano fare rete, ottenere informazioni che non potevano trovare altrove, o, nel caso di Bahgat Sabr, riferirle direttamente.
‘Cosa potrebbe fare la democrazia’
Sabr, quasi quotidianamente, fa una trasmissione sulla politica egiziana, in diretta su Facebook dalla sua cucina, o dal suo terrazzo o dalla sua automobile, a New York. Imprenditore nel campo della climatizzazione, questo spavaldo cinquantenne pelato si è creato un bel seguito tra gli spettatori egiziani che amano il suo schietto linguaggio da strada.
L’obiettivo della trasmissione, dice, non è specificamente criticare Abdel Fattah al-Sisi, anche se non nasconde il suo disprezzo per il presidente egiziano. Piuttosto, spiega, è “mostrare alla gente ciò che la democrazia potrebbe fare per loro. Ricevo telefonate da egiziani che sostengono al-Sisi e di egiziani che non lo sostengono, e li lascio parlare. Questo è uno dei miei obiettivi: riunire la gente, non solo lottando contro al-Sisi, ma educandola”.
Sabr dice di avere circa 60mila spettatori per puntata. Nelle giornate buone, può arrivare a 250mila, sempre che la sua pagina Facebook sia stabile. Negli ultimi anni, racconta, la sua pagina Facebook è stata presa di mira da troll che hanno segnalato il suo profilo, che poi è stato bannato. Più recentemente, le sue dirette sono state ripetutamente bloccate senza preavviso. “A volte mi bloccano un giorno dopo la diretta. Altre volte, aspettano due, tre dirette e poi mi chiudono l’account”.
Sabr racconta di essersi recato nella sede Facebook di Manhattan, a Broadway, due volte lo scorso anno, per cercare di avere risposta di persona. La prima volta, dice, si era pure vestito bene per l’occasione. Quando è arrivato e ha spiegato che aveva bisogno di parlare con qualcuno del servizio clienti, gli è stato detto che era tardi.
La seconda volta gli hanno dato un iPad perché scrivesse le sue lamentele mentre era in sala d’attesa. Ma prima che potesse finire – ci dice che fa fatica a digitare velocemente – la sessione sul tablet è scaduta. Un impiegato gli ha suggerito di provare a contattare la società dalla propria pagina Facebook. Sabr ha spiegato che la sua pagina era stata bloccata e quindi gli era impossibile. L’impiegato, allora, gli ha detto che sarebbe stato contattato da Facebook. Sta ancora aspettando.
Sabr ha tentato varie strategie per aggirare le interruzioni. Ha trasmesso le dirette da pagine di amici, ma anche quelle puntate sono state spesso bloccate. Ha quindi aperto una pagina pubblica, pagando inizialmente 30 dollari di pubblicità, e ha usato la pagina per condividere video dal suo profilo personale chiuso. È riuscito a tenere attivo quell’account, ma non sopporta di dover pagare per qualcosa che crede dovrebbe essere gratis.
“È come volersi comprare una macchina e, ogni volta che la si usa, dover pagare di nuovo la fabbrica”, dice. “Ma la macchina è già mia.”
‘Tutto il lavoro si è fermato’
La vita di Ahmed Abdel-Basit Mohamed è stata sconvolta da Facebook tre volte. La prima nel 2015, quando lavorava come assistente di fisica all’Università del Cairo. È stato licenziato perché continuava a postare sulla sua pagina Facebook dopo che l’università gli aveva chiesto di smetterla di pubblicare messaggi critici verso il governo. L’università, all’epoca, ha dichiarato in un comunicato che (Mohamed) aveva provocato violenza e tumulti nel campus, accuse che lui nega.
Mohamed ha lasciato l’Egitto e si è trasferito in Qatar, dove ha lavorato all’Università del Qatar. Mentre era a Doha, nel 2016, Mohamed è stato processato in contumacia in Egitto con l’accusa di essere parte della bandita Fratellanza Musulmana e di cospirare per uccidere personale appartenente alla polizia e all’esercito.
Amnesty International ha definito il caso un “processo militare palesemente ingiusto”, basato su confessioni estorte sotto tortura. Nel maggio di quell’anno, Mohamed, insieme ad altri sette, è stato condannato a morte. Ha continuato a postare su Facebook. L’Università del Qatar, alla fine, gli ha chiesto di smettere di scrivere di politica sulla sua pagina. “Ho rifiutato – dice – E quindi ho lasciato il Qatar e sono venuto negli Usa”.
Mohamed oggi è un insegnante di fisica in una scuola del New Jersey. Facebook, dice, è una parte fondamentale della sua vita personale e di attivista ed è per questo che lo disturba il fatto di essere stato ripetutamente bannato, dopo essere stato preso di mira dai troll negli ultimi mesi. Usa la sua pagina Facebook per raccontare le storie di prigionieri egiziani, in particolare di quelli che sono stati condannati a morte come lui, e per mantenere i contatti con altri attivisti che protestano contro le esecuzioni in Egitto.
“Quando mi hanno bannato, per un mese o una settimana, tutto il lavoro si è fermato – dice – Non posso contattare altre persone. Non posso ricevere messaggi da diverse famiglie che hanno figli o parenti in carcere. È davvero brutto per me e per altre famiglie. Confidano molto in me per diffondere il loro dolore e le loro storie tramite la mia pagina Facebook.”
A Mohamed è stato anche impedito di condividere regolarmente le proprie opinioni e analisi delle notizie con i suoi 70mila followers. Come l’altro attivista egiziano intervistato da MME, Mohamed dice che Facebook gli ha comunicato il blocco con un messaggio automatico: “Ho ricevuto un messaggio che diceva che ‘avevo scritto qualcosa di sbagliato su qualcuno’ o che ‘avevo violato le regole di Facebook’”.
Ma, ricontrollando i suoi post, non è riuscito a trovare niente di quanto descritto, così ha contattato Facebook. “Ho detto: ‘Ecco quello che pubblico. Non ho violato le vostre regole.’ Ma nessuno mi ha risposto.” “Mi sono rifiutato di smettere (di usare Facebook) all’Università del Cairo. Anche quando sono andato in Qatar mi sono rifiutato di chiudere Facebook, quindi mi chiedo: “Perché Facebook mi fa questo?”.
(continua)