L’apertura di una base turca in territorio qatariota influirà sullo scenario regionale. Dal‘neo-ottomanismo’ di Erdogan alla quarta potenza NATO nel Golfo e dal potenziamento dell’asse sunnita in chiave anti-iraniana al possibile ruolo diplomatico di Doha
di Giovanni Pagani
Roma, 4 febbraio 2016, Nena News – Il 2 dicembre 2015, quando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan annunciò l’apertura di una base militare in Qatar, fu osservato come il ritorno di truppe turche nel Golfo, a un secolo esatto dal ritiro Ottomano dalla penisola araba, potesse simbolicamente confermare le nuove ambizioni regionali di Ankara.
Poche settimane più tardi, quando l’esecuzione in Arabia Saudita dell’imam sciita Nimr Al-Nimr ufficializzò la spaccatura tra Tehran e Riyadh, la cooperazione militare tra Turchia e Qatar poteva sembrare invece a favore del fronte sunnita, portando alcuni analisti iraniani a notare come la politica estera di Ankara stesse progressivamente volgendo verso logiche settarie. Altri ancora, in luce della crisi diplomatica in atto con la Russia e dello scontro d’influenze tra l’Alleanza Atlantica e Mosca, posero invece giustamente l’accento sull’ingresso di una quarta potenza NATO nel Golfo, e su comel’asse Ankara-Dohaavrebbe potuto ‘sigillare’ l’area in chiave anti-russa.
Secondo quanto riportato nei documenti resi pubblici nei giorni scorsi, Ankara dispiegherà dai 3.000 ai 5.000 uomini in Qatar – tra forze di terra, aeree e navali –, fornirà addestramento militare all’esercito qatariota e condividerà le proprie informazioni d’intelligence riguardanti gli obiettivi comuni ai due paesi. In cambio di protezione militare, Doha tenterà di supplire alle perdite subite dall’economia turca a seguito della rottura diplomatica con Mosca (circa 3 miliardi di dollari) e si impegnerà a garantire forniture di gas nel caso in cui quest’ultima decidesse di chiudere i rubinetti ad Ankara.
Tuttavia, il motivo per cui gli accordi militari tra Ankara e Doha resi pubblici nei giorni scorsi continuano a sollevare più di un interrogativo sui futuri equilibri regionali, è che nessuna delle tre ipotesi precedentemente esposte ne potrebbe automaticamente escludere un’altra.L’imminente presenza militare turca in Qatar – dove peraltro si trova la principale base aerea statunitense nella regione – avviene senza dubbio con il benestare di Washington e nel quadro di un più ampio disegno NATO, ma non è del tutto indipendente dallo scontro regionale in atto tra Riyadh e Tehran. Allo stesso tempo, è proprio l’approvazione saudita a suggerire un ricompattamento del fronte sunnita in funzione anti-iraniana, ma non deve ugualmente far dimenticare l’autonomia che tanto Ankara quanto Doha sono riuscite a ritagliarsi dal 2011 nella regione.
In altre parole, ciò che accomuna Turchia e Qatar, oltre alla non trascurabile convergenza d’interessi strategici, è soprattutto l’intraprendenza che ha caratterizzato la politica estera dei rispettivi capi di stato dopo le rivoluzioni arabe. Il crollo del regime tunisino, egiziano e libico, unito al prolungamento della crisi in Siria e al graduale indietreggiamento statunitense, ha infatti aperto ampi spazi di manovra per nuovi attori regionali; spazi che sia Recep Tayyip Erdogan sia l’allora emiro Hamad bin Khalifa Al-Thani hanno provato a sfruttare prontamente.
Il primo, inizialmente più attendista e mediatore in Libia e Bahrein, ha adottato una politica sempre più spregiudicata in Siria, dichiarando l’appoggio turco all’opposizione e aprendo unilateralmente i propri confini ai foreign fighters desiderosi di combattere Assad. Il secondo, finanziatore diretto della rivolta libica e siriana – oltre che della Fratellanza Musulmana in Egitto – è stato costretto ad abdicare in favore del figlio Tamim, nel tentativo di ricalibrare una politica estera poco oculata che gli aveva procurato l’inimicizia del Cairo e Riyadh oltre alla sfiducia di diversi attori internazionali. Dalla sua ascesa al potere nell’estate 2013, Tamim bin Hamad al-Thani ha quindi preferito una linea più neutrale e meno intrusiva, incentrata sulla diplomazia e più autonoma dalle logiche settarie promosse dal regno saudita.
A tal proposito, Doha si è resa sempre più protagonista di un equilibrismo diplomatico senza precedenti: mediando il rilascio di prigionieri – occidentali e non – in Siria, Libano e Yemen, conservando rapporti diplomatici con il mondo sciita e non mostrandosi contraria allo stesso accordo sul nucleare iraniano. Ankara, al contrario,determinata a guadagnarsi un ruolo di primo piano nello scenario regionale, ha gradualmente abbandonato la propria neutralità, diventando sempre più direttamente invischiata nel conflitto siriano, dove al fianco dell’Arabia Saudita costituisce il principale avversario dell’Iran. L’abbattimento di un jet russo da parte dell’esercito turco lo scorso novembre, lungo il confine con la Siria, ha infine acuito tale polarizzazione, aumentando ulteriormente la distanza tra la NATO e Mosca.
In questo quadro, la rinnovata cooperazione militare tra Turchia e Qatar è stata giustificata come una soluzione per far fronte ai ‘nemici comuni’. Essa si inserisce tuttavia in un fitto intreccio di alleanze e rivalità dove nulla è riducibile alla natura bilaterale dell’accordo e tutto risulta incerto se misurato rispetto alle fratture politiche e religiose che solcano la regione. Mentre i negoziati sulla Siria procedono in salita a Ginevra, è dunque legittimo chiedersi se, e come, un’alleanza militare tra i due attori più controversi dello scacchiere possa influenzare i conflitti in atto.Da Damasco a Sana’a e da Tripoli a Baghdad. Nena News