Giornata di sciopero ieri nel Nord di Israele. Almeno in duemila a Piazza Rabin, a Tel Aviv, per chiedere al governo di fermare la politica discriminatoria nei confronti della minoranza araba. Alto Comitato di monitoraggio arabo: 50mila abitazioni a rischio distruzione
della redazione
Roma, 29 aprile 2015, Nena News – Sono scesi in piazza almeno in duemila, ieri a Tel Aviv, per protestare contro la demolizione delle case nei villaggi a magioranza palestinese in Israele, abitazioni ritenute illegali dallo Stato ebraico. La manifestazione è stata convocata dall’Alto Comitato di monitoraggio arabo, che rappresenta la comunità palestinese in Israele, nell’ambito delle sciopero generale indetto sempre ieri. Alla mobilitazione ha aderito anche la Lista araba unita, la coalizione di partiti arabi arrivata terza alle ultime politiche vinte dal premier Benjamin Netanyahu.
È stata una giornata di astensione dal lavoro: negozi, banche e scuole sono rimasti chiusi nelle località arabe nel Nord di Israele, tra le quali Nazareth, Sakhnin e Umm al-Fahm. E nel pomeriggio Piazza Rabin, a Tel Aviv, si è riempita di manifestanti che hanno protestato dietro lo slogan “Stop alle demolizioni”, sventolando la bandiera palestinese. La città israeliana, abitata prevalentemente dalla comunità ebraica, è stata scelta proprio per portare all’attenzione degli ebrei israeliani la questione della politica delle demolizioni che colpisce la minoranza palestinese che detiene la cittadinanza israeliana.
Una politica che si è inasprita negli ultimi tempi. L’Alto Comitato di monitoraggio arabo ha definito lo sciopero una “risposta alle sempre più numerose azioni (demolizioni) delle autorità israeliane contro le case degli arabi e alla politica di incitamento all’odio contro gli arabi lanciata dal premier Netanyahu in campagna elettorale”. Il primo ministro, infatti, alla vigilia del voto, lo scorso marzo, aveva esortato gli elettori della destra a recarsi alle urne per contrastare “la mandria” di palestinesi israeliani che si recavano a votare. Affermazioni che attirarono persino le critiche dell’alleato Obama.
La questione delle demolizioni, messe in atto con il “pretesto dell’illegalità”, si accompagna alla sempre minore disponibilità di alloggi per i palestinesi israeliani, considerati cittadini di serie B, e alla mancanza di politiche di sviluppo in quelle comunità. Secondo i calcoli del Comitato, sono circa 50mila le case a rischio demolizione.
I palestinesi con cittadinanza israeliana ammontano a circa il 20 per cento della popolazione dello Stato ebraico. Sono i discendenti dei 160mila palestinesi rimasti nelle proprie terre dopo la Nakba, ovvero l’espulsione in massa dei palestinesi nel 1948, durante la creazione dello Stato di Israele.
Una minoranza non tanto esigua che lamenta discriminazioni da parte del governo, in particolare sul fronte dell’edilizia. Il gruppo Adalah ha stimato che nelle aree palestinesi si fanno scarsi investimenti edilizi: soltanto il 4,6 per cento delle nuove abitazioni realizzate nel Paese ricade nei territori abitati in prevalenza dai palestinesi. Per Adalah si tratta della “deliberata e sistematica” scelta governativa di dare la precedenza agli investimenti nelle zone ebraiche. I dati sostengono questa tesi: nel 2014, infatti, nelle comunità ebraiche sono state costruite 38.261 unità abitative a fronte delle 1.844 realizzate in quelle palestinesi. Nena News
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