Colonna del progetto sionista, il sindacato monopolista fondatore dello Stato ha basato la tutela del lavoro ebraico sulla prevaricazione della classe operaia palestinese. Ma dagli anni Ottanta ad oggi mancati diritti, privatizzazioni e discriminazioni etniche e di genere hanno indebolito tutto il mondo del lavoro
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 29 settembre 2017, Nena News – Ci sono conflitti che ne nascondono altri, violenze che sottendono abusi diversi. Quelle belliche, ad esempio: cancellano agli occhi esterni i confronti sociali e economici in paesi che da fuori appaiono solidi. Il caso di Israele è sintomatico: lo Stato dell’high-tech, delle start up, dei palazzi luccicanti di Tel Aviv, lo Stato che cresce da oltre un decennio con una media del 4%.
Ma Israele è povero. O almeno lo sono 1,7 milioni di israeliani, il 21,7% della popolazione totale. Un dato che fa dello Stato ebraico il primo paese tra quelli Ocse per tasso di povertà e il quinto per disuguaglianze socio-economiche. Numeri importanti, se si pensa che l’Egitto del generale al-Sisi conta la stessa percentuale di poveri.
Israele è anche tanti paesi in uno: è il paese degli ebrei europei, élite economica e politica; quello degli ebrei est-europei, mediorientali e africani, discriminati sul posto di lavoro, nelle opportunità di crescita e nelle condizioni di vita; è quello della minoranza palestinese, 1,8 milioni di persone che vivono ai margini politici e economici dello Stato; è il paese che occupa militarmente i Territori Palestinesi, esercitando un’autorità de facto che impedisce lo sviluppo interno.
Eppure, eccezion fatta per l’ultima categoria, i conflitti interni restano latenti. La capacità politica di soffocamento del malcontento la diedero sei anni fa le tende degli indignados israeliani, la prima vera sollevazione di base del paese che coinvolse centinaia di migliaia di persone, numeri senza precedenti per lo Stato ebraico: all’apice delle manifestazioni, a luglio 2011, in piazza a Tel Aviv scesero 500mila persone. Il loro simbolo, la tenda; le richieste, maggiore uguaglianza sociale in termini di diritto all’abitare, costo della vita, stipendi, welfare.
Finì in una bolla di sapone. A monte la volontaria de-politicizzazione del movimento, con una leadership incapace – o meglio, non intenzionata – a mettere in discussione le basi stesse del sistema economico dello Stato israeliano, il progetto coloniale e il budget per la sicurezza. Mancò anche un’analisi limpida del percorso compiuto da uno Stato che alla sua nascita, nel 1948, fu descritto come progetto socialista di successo. Il paese dei kibbutz, delle imprese collettive e della redistribuzione accecò molti in Europa, soprattutto a sinistra, affascinati da uno Stato piccolo e “circondato”, ma capace di costruire le proprie basi su principi socialisti.
Le vere basi erano altre, fin da allora. E il loro simbolo, cristallino, fu ed è Histadrut: il sindacato del partito laburista – fondatore dello Stato di Israele – operò come una macchina da guerra per servire i fini del progetto sionista finà dagli anni ’20 quando diede vita all’unità paramalitare Haganah e a Mapai, il Labour Party. Esclusi dal tesseramento i cittadini di origine araba (i palestinesi) fino al 1959 e gli immigrati fino al 2011, attraverso il monopolio del sistema sindacale essendo l’unico a firmare contratti collettivi, tramite la proprietà del 25% delle aziende industriali (alcune in partnership con società del Sudafrica dell’apartheid) che negli anni d’oro lo resero il secondo datore di lavoro israeliano,
Histadrut plasmò la tutela del lavoro ebraico e i diritti dei lavoratori ebrei sulla discriminazione strutturale e istituzionalizzata di quelli non ebrei. Perché, alla base, stava la sua vera attività: la colonizzazione della Palestina storica, lanciata agli albori dello Stato e portata avanti con le aziende di costruzione di cui era proprietario.
Una strategia che il partito-Stato laburista (che ne nominava segretario generale e vertici) non solo avallò ma utilizzò come strumento dipendente dalle strategie governative: il sistema egualitario di welfare in Israele, tra gli anni ’60 e ’70, si sviluppò a spese della popolazione palestinese, tramutandosi nell’ennesima tessera del progetto sionista. Ovvero, un’economia basata su uguaglianza economica e sociale dei soli cittadini ebrei. Dalla lotta di classe alla lotta contro i lavoratori arabi.
Cosa ne è oggi di quella uguaglianza diseguale? Eclissata, evaporata sotto i colpi del neo-liberismo. Tale percorso socio-economico, che compie ormai tre decenni, ha condotto all’indebolimento della forza lavoro israeliana, ad una sindacalizzazione eterea e a strutturali gap tra ricchi e poveri. È il 1985 quando il governo israeliano entra di prepotenza nella logica del libero mercato, dopo anni di iper-inflazione e debolezza economica figlia delle guerre lanciate nei decenni precedenti contro il mondo arabo.
L’esecutivo guidato da Shimon Peres lancia un piano di stabilizzazione economica che prevede il taglio della spesa pubblica, l’accordo con Histadrut per introdurre controlli sui livelli salariali, la svalutazione dello shekel, ma soprattutto riforme che riducono il controllo dello Stato sull’economia. Tradotto: si opta per una liberalizzazione selvaggia, per un’ondata di privatizzazione dove la regolamentazione statale svanisce quasi del tutto e in cui la priorità è attrarre capitali privati e stranieri. Non più creare occupazione: lo Stato si libera dai lacci della tutela del lavoro lasciando alle imprese piccole e grandi il compito di riconoscere diritti e tutele. E se l’obiettivo è abbassare il costo del lavoro, il peso dei tagli ha schiacciato i lavoratori, buona parte dei quali invischiati in sistemi di appalti e subappalti dove ad assumere è la società più piccola.
Il pacchetto piovve su una classe lavoratrice scarsamente politicizzata, dove era sì alto il livello di sindacalizzazione a causa del monopolio-Histadrut, ma in cui i diritti erano stati ricevuti, dati dallo Stato neonato nel 1948 e non da lotte o mobilitazioni della base. La loro perdita – e il conseguente crollo del tasso di iscritti al sindacato, dall’85% al 30% – non ha portato né allora né oggi a reazioni significative.
Conflitti latenti, soffocati, che arrancano nell’odierno mare di precariato, lavori a termine, privatizzazione del sistema pensionistico, diseguaglianze etniche e di genere. Latenti, ma non invisibili: basta girare per Israele per notare le abissali differenze nelle condizioni di vita da quartiere a quartiere, da città a città. Per passare dai grattacieli e gli eleganti cafè di Tel Aviv alla sua periferia basta attraversare una strada, superare la stazione centrale per ritrovarsi nel degrado sconosciuto al turismo europeo. Lo stesso vale per Gerusalemme, dove la divisione palese non è solo quella – nota – tra l’Est palestinese e l’Ovest ebraico, è anche quella interna alla comunità ebraica tra quartieri-vetrina e zone marginalizzate. Visitare le città del sud di Israele o quelle a maggioranza araba, completamente escluse da piani di investimento e infrastrutturali, dà indietro i volti di mille paesi diversi, dove la linea di demarcazione è etnica, non solo religiosa.
Di certo la più visibile è quella che tiene ai margini la popolazione palestinese, il 20% del totale. La realtà parla di determinati settori economici da cui i palestinesi sono esclusi a priori e dati raccolti dai sindacati indipendenti nati nell’ultimo decennio che calcolano salari medi più bassi del 30-40%. I palestinesi non entrano negli aeroporti e nei porti, nelle industrie elettriche, chimiche, energetiche e militari, non sono manager di alcuna azienda, né privata né pubblica, e non lavorano nel settore pubblico, eccezion fatta per gli ospedali dove la mancanza cronica di medici e infermieri costringe a pescare nella minoranza araba.
Più occulta la discriminazione di genere: il tasso di occupazione femminile ruota intorno al 64%, ma solo il 5% dei manager pubblici e privati è donna. E, secondo gli ultimi studi, la differenza di salario con gli uomini per impieghi di pari livello va dal 22% al 33%. Spesso relegate in settori considerati “femminili” – assistenza, educazione, sanità – lavorano part-time molto più degli uomini anche a causa della carenza di sostegno nelle attività familiari e la cura dei figli. Uno Stato, tanti paesi.
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati
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