Da inizio 2018, dopo l’annunciata vittoria sull’Isis, 4,6 milioni di persone sono tornate a casa. Ma 1,3 milioni vivono ancora nelle tende tra mancata ricostruzione e pandemia. E lo Stato islamico ricorda a tutti di esserci ancora: 11 morti domenica in un attacco islamista a sud di Baghdad
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 10 novembre 2020, Nena News – Centomila sfollati iracheni rischiano di ritrovarsi fuori dai campi senza alternative. In un paese ancora non ricostruito dopo gli anni di occupazione di intere regioni da parte dello Stato islamico, l’allarme lanciato dal Norwegian Refugee Council arriva il giorno dopo la morte di undici persone, poco fuori Baghdad, per mano dell’Isis: domenica un gruppo di miliziani ha assaltato un checkpoint controllato dalle Unità di mobilitazione popolare (le milizie sciite filo-iraniane) ad al-Radwaniyah, a sud della capitale.
Granate e armi da fuoco, a ribadire una presenza mai eclissatasi dopo la lenta e graduale ripresa del territorio da parte del governo iracheno, che annunciava la vittoria definitiva alla fine del 2017.
Come nella vicina Siria, però, cellule affatto dormienti del “califfato” continuano a colpire. È in questo clima che, da agosto 2019, il governo sta procedendo alla chiusura dei campi sfollati, pieni ancora di decine di migliaia di famiglie scappate dopo il 2014 dalle regioni occidentali a maggioranza sunnita.
Dall’inizio del 2018 circa 4,6 milioni di sfollati hanno avuto modo di tornare nelle proprie comunità, seppur metà di loro in condizioni pessime, tra mancati servizi, disoccupazione e infrastrutture carenti. Non tutti: restano ancora 1,3 milioni di sfollati. E ora, in piena emergenza Covid-19 e con un paese affatto ricostruito, le chiusure procedono, insensibili agli appelli delle organizzazioni internazionali.
Ieri è stato il Norwegian Refugee Council a ri-lanciare l’allarme dopo l’avviata chiusura del campo Hammam Al Alil, tra i più grandi del paese, da svuotare entro la prossima settimana: gli sfollati dei campi di Baghdad, Karbala, Divala, Suleimaniya, Anbar, Kirkuk e Nineweh vengono messi alla porta di quella che per anni hanno considerato casa loro.
Gli si chiede di tornare nelle comunità di origine, ma in pochissimi possono farlo: con abitazioni mai ricostruite, checkpoint disseminati ovunque e controllati dalle milizie (non direttamente dal governo) e il rischio di attacchi terroristici, l’unica conseguenza è la creazione di un enorme numero di nuovi senzatetto.
«Chiudere i campi prima che i residenti siano in grado di tornare a casa non risolve la crisi degli sfollati – spiega il segretario generale del Nrc Jan Egeland – Al contrario, mantiene tantissimi iracheni nel circolo vizioso dello sfollamento, più vulnerabili che mai, soprattutto in piena pandemia».
Lo dimostrano gli sfollati buttati fuori dai campi chiusi nelle scorse settimane a Baghdad e Karbala: secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, la metà di loro si è ritrovata a vivere in edifici abbandonati, per strada. Chi è riuscito a tornare, in alcuni casi, ha trovato la propria casa occupata da un’altra famiglia, all’interno di un processo di modifiche demografiche del territorio su scala etnica e confessionale.
Ma sono comunque pochi: secondo l’Oim il 76% dei quasi 17mila sfollati cacciati dai campi nell’ultimo anno ha subito un secondo sfollamento nelle città ospitanti. Fuori dai campi ufficiali, ma in ghetti nati spontaneamente dove era possibile, ai margini delle comunità, primo passo verso ulteriori tensioni sociali in un paese in piena crisi economica e politica.
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