INTERVISTA a Sarah Quadir di Workers against Sectarianism, in prima linea nelle proteste anti-governative a Piazza Tahrir (Baghdad). Tra i temi affrontati: gli effetti del lockdown sulle manifestazioni, ma anche le esperienze che ha fatto come attivista femminista
Pubblicato originariamente in tedesco dal collettivo Solidarisch gegen Corona
* (Traduzione a cura di Emiliano Zanelli e Maurizio Coppola)
Roma, 19 maggio 2020, Nena News – Ad ottobre del 2019 in Iraq sono scoppiate delle proteste in tutto il paese che rapidamente si sono trasformate in occupazioni di piazza – tra le città coinvolte vi sono Baghdad, Nassiriya, Bassora e Najaf – e che ancora persistono. I manifestanti chiedono la secolarizzazione del sistema confessionale su cui si regge l’Iraq e migliori condizioni di vita e di lavoro. Hanno subito costretto il primo ministro Adel Abdel Mahdi alle dimissioni nel novembre 2019. L’Iraq si trova da allora in una crisi politica conclamata che procede lungo due direttrici: fino ad ora il governo ha risposto alle occupazioni di piazza e alle manifestazioni con violente repressioni che hanno già causato più di 600 morti. Allo stesso tempo abbiamo potuto osservare una lotta di potere per la carica di primo ministro – cui spetta la formazione del nuovo governo –, che si è contraddistinta per le numerose nomine susseguitesi. Questa crisi politica viene affiancata da una crisi economica che attualmente si sta aggravando per via del crollo del prezzo del petrolio durante il lockdown dovuto alla pandemia del coronavirus. Il divieto di uscire di casa, che il governo iracheno ha applicato da fine marzo, ha portato contemporaneamente ad un inasprimento dei rapporti sociali in Iraq; una grossa parte della popolazione è senza lavoro, soprattutto tra le giovani generazioni, o si trova in rapporti di lavoro precari, come i lavoratori e le lavoratrici giornalieri che sono costretti a vivere alla giornata. Poiché in Iraq un sistema statale di sicurezza sociale esiste a malapena, i precari ora devono scegliere tra la fame a casa loro e il pericolo di contagio sul posto di lavoro. Inoltre il divieto di uscire significa per molte donne irachene essere bloccate in casa tutto il giorno con i loro mariti e spesso anche con le famiglie di costoro. Come in molti paesi nel mondo, anche in Iraq aumentano drasticamente i femminicidi e le violenze domestiche.
Ad aprile abbiamo discusso con Sarah Quadir della situazione attuale in Iraq, tra la pandemia e il confinamento. Sarah fa parte di Workers against Sectarianism, e dall’inizio della “rivoluzione d’ottobre” nel 2019 ha frequentato piazza Tahrir a Baghdad. Con lei abbiamo parlato non solo di come il lockdown abbia avuto effetti sulle occupazioni di piazza e sulla protesta politica. Al centro del nostro dialogo sono state anche le esperienze da lei fatte finora nel corso della protesta come attivista femminista. Una delle particolarità sta nel fatto che molte donne portano avanti le occupazioni e le rivolte in primissima linea. Al contempo nell’intervista si esprime una prospettiva femminista circa il divieto di uscire di casa, al cui proposito Sarah afferma: “Per molte donne in Iraq la quarantena è già da tempo una realtà della vita quotidiana”.
I Workers against Sectarianism aggiornano costantemente sugli sviluppi attuali in Iraq tramite Facebook, Twitter e un canale Telegram.
Aggiornamento: il 7 maggio 2020 Mustafa al-Kadhimi è stato nominato primo ministro e un nuovo governo si è ora formato in Iraq. Il giorno stesso della sua nomina, Kadhimi ha lasciato trapelare che avrebbe rimesso in libertà i manifestanti arrestati nei mesi precedenti per ragioni politiche. Domenica 10 maggio a Baghdad, Bassora e non solo migliaia di persone sono scese di nuovo in strada per manifestare contro il sistema confessionale iracheno – un nuovo primo ministro non è abbastanza. Per tutto il giorno si sono susseguiti sit-in e tentativi di attaccare la greenzone di Baghdad attraverso il ponte di al Jomhurya, così come violenti scontri con la polizia antisommossa che ha attaccato i manifestanti.
Ancora poche settimane fa avevate più di 1.500 tende in piedi a piazza Tahrir e lì da ottobre 2019, dall’inizio del movimento, vi siete costruiti una vera e propria vita quotidiana della resistenza: dotata di proprie infrastrutture, di un ospedale, una scuola, piccole biblioteche e circoli di lettura e di discussione. A fine marzo è arrivato il lockdown del governo iracheno. Che significato ha questa misura per voi e per la vostra protesta? Com’è ora la situazione a piazza Tahrir? Sul posto ci sono ancora occupanti?
I manifestanti hanno deciso che per la durata del lockdown il venti per cento di loro rimarrà sul posto. Il resto è andato a casa per difendersi dal virus. Questo venti per cento di occupanti mantiene la posizione. Si occupano del fatto che le tende vengano regolarmente disinfettate, altrimenti rimangono anche l’intero giorno nelle loro tende. L’atmosfera nella piazza si è fatta ovviamente un po’ più grigia, come in generale accade con il divieto di uscire di casa. Comunque i manifestanti tentano più che altro di fare in modo che la gente rimanga a casa, affinché non sia esposta ad un rischio di contagio ancora più alto. Ho l’impressione che il coprifuoco abbia salvato il sistema settario dalla rivoluzione. I governanti ora hanno il vantaggio di poter esercitare un maggiore controllo sulle strade e di poter difendere meglio la green zone. Quindi è proprio come se il confinamento e il coronavirus li avessero fatti scampare dalla rivoluzione. Eppure noi siamo ancora qua, le rivendicazioni dei manifestanti continuano a non essere state accontentate e i nuovi primi ministri vengono ancora rifiutati. Siamo pur sempre scesi in strada per un nuovo sistema, un nuovo futuro. Queste innumerevoli nomine di politici come ministri servono solo a distrarre i manifestanti, che in questo modo dovrebbero dimenticare la loro principale rivendicazione: cambiare radicalmente il sistema in Iraq. D’altra parte ci stiamo mobilitando molto per portare avanti la protesta dopo il lockdown e il coprifuoco. Riteniamo che ci sarà di nuovo una grande mobilitazione.
A Nassiriya, nel sud dell’Iraq, la polizia nelle ultime settimane ha più volte usato la violenza nei confronti di coloro, uomini e donne, che stavano occupando le piazze. Ci puoi raccontare cosa è successo lì? E com’è la situazione nelle occupazioni di piazza in altre città irachene?
Noi le chiamiamo piuttosto “forze di sicurezza” perché non si tratta solo della polizia: ad usare la violenza contro le persone e i manifestanti sono anche l’esercito e le milizie. Queste forze di sicurezza hanno agito in maniera estremamente brutale contro le proteste in molte città, non solo a Nassiriya. Lì per esempio hanno bruciato le tende nella piazza. Ma hanno anche sparato sui manifestanti con munizioni vere, li hanno accoltellati nella notte e hanno rapito alcuni attivisti. Ad esempio a Nassiriya c’era nella piazza un’attivista che veniva chiamata Om Haider [madre di Haider – il vero nome è sconosciuto, ndr]. A lei è successo che un mese prima di essere uccisa è stata colpita da stalking, mobbing e minacce sui social media e su Facebook e hanno tentato di rovinare la sua reputazione. Appena hanno potuto farlo, alla fine l’hanno uccisa: perché guidava la protesta a Nassiriya contro il sistema settario e confessionale e non si è fatta impedire di aprire la bocca per combattere contro chi voleva ucciderla. Molte e molti attivisti sono stati assassinati. Anche un mio amico è stato minacciato e intimidito perché è un attivista e per di più ateo. Queste minacce sono venute da diverse “forze di sicurezza”: dalle milizie, da importanti ufficiali, qualche volta dalla polizia. A essere colpiti dalle minacce non sono stati solo lui e la sua famiglia, ma anche i suoi amici. Puoi immaginarti che pressione abbia addosso. Non esce più di casa già da un po’, né viene più a piazza Tahrir perché è costretto ad avere paura non solo per sé, ma anche per la sua famiglia, i suoi amici, praticamente per tutto il suo ambiente sociale. Cose simili sono successe in tutto l’Iraq, a Najaf, a Babilonia, a Bassora e Baghdad.
La specificità della vostra protesta, tra le altre cose, sta nel fatto che vi prendono parte soprattutto donne e che si impegnano politicamente in prima linea. Com’è la tua esperienza di donna femminista in questo movimento? Come si è configurata la situazione nelle piazze occupate per le donne presenti tra gli occupanti? Quali sono le vostre rivendicazioni?
Questa rivoluzione ha mostrato per la prima volta che in Iraq ci sono molte donne attive dal punto di vista politico e intellettuale, che hanno il coraggio di reclamare i loro diritti. Molte donne sono scese in strada e hanno partecipato alla rivoluzione – anche contro l’immagine tradizionale dell’Iraq e il paradigma che finora ha dominato le proteste. E molte donne che hanno solo poche libertà sono riuscite a convincere le loro famiglie dell’importanza del movimento. Hanno potuto spiegarlo alle loro famiglie, in modo da potervi partecipare davvero liberamente. Questo movimento è importante per tutte. Le nostre rivendicazioni quindi sono ovviamente molto ampie. Tra le altre cose, vogliamo la fine dei matrimoni precoci e siamo contro qualsiasi tipo di tradizione tribale. Inoltre vogliamo un cambiamento della legge sui divorzi che attualmente dopo una separazione assegna i bambini automaticamente al padre. Vogliamo anche che le madri vengano almeno riconosciute come genitori con eguali diritti. In definitiva per noi è importante muoverci contro le famiglie tradizionali e conservatrici che impediscono alle donne di muoversi liberamente e anche di lasciare liberamente la loro casa – non solo per ragioni di necessità assoluta. Da questo punto di vista, le donne in Iraq vivono già da tempo in quarantena, da prima che arrivassero la pandemia e il divieto di uscire di casa.
Nelle piazze erano – sono – presenti non solo attiviste politiche convinte, ma anche donne che prima non avevano niente a che fare con la politica. E ci sono anche molte donne che sostengono la rivoluzione cucinando o con cure mediche e lavoro di pulizia o di logistica. Non sono parte del movimento politico in senso stretto, ma ci supportano tramite queste attività. Possiamo anche dire che praticamente ci sono tre sezioni tra le donne: le attiviste politiche, che erano organizzate anche prima, stanno in prima linea e lì portano avanti direttamente le battaglie contro la repressione dello Stato, producendo dichiarazioni e rivendicazioni. Il secondo “gruppo”, se così vogliamo chiamarlo, sono quelle donne che non avevano alcun retroterra politico, ma prendono parte politicamente al movimento; il terzo sono le donne che non partecipano in maniera direttamente politica al movimento, ma lo sostengono.
Suona come se ci fosse una sorta di divisione tra le donne – come la valuti? Come l’avete gestita?
Sì, c’è un po’ la tendenza a dividerci e questo è un problema. Queste differenze ci toccano soprattutto perché le donne vengono da famiglie molto conservatrici e da tribù tradizionaliste. Non sono mai state incitate a sollevarsi e protestare. Queste donne non hanno mai imparato cosa potrebbero fare, e come farlo – spesso non ne hanno proprio alcuna idea. Questa è una differenza enorme rispetto a un’attivista politica che in molti casi è cresciuta anche in un altro ambiente: sa come gridare, come lottare e difendersi – ha imparato a farlo. Una donna che proviene da una famiglia conservatrice non l’ha imparato e, all’interno di queste strutture conservatrici, le viene costantemente impedito. Ciò che può fare è appunto cucinare, fare le pulizie, incaricarsi delle cure mediche, organizzare la logistica. Noi donne riusciamo a riunirci a piazza Tahrir per il fatto che cooperiamo: le donne in prima linea si fanno curare dalle donne della tenda-ospedale; le donne che cucinano approvvigionano a loro volta la tenda-ospedale e via dicendo. Questa è cooperazione. A piazza Tahir, ad esempio, spesso ci sono piccoli circoli con donne e uomini, e quando sono lì insieme in cerchio le donne mica pensano: “oh, io sono al fronte, lei si occupa dei medicamenti e quest’altra donna non fa altro che cucinare”. Anzi, si riuniscono e quando una donna comincia a cantare, il resto la segue. Ecco, quando stai a guardare la rivoluzione che stiamo compiendo proprio lì nella piazza, allora sembra tutto un caos, ma ognuno dà il proprio contributo, con la propria attività. Tutte e tutti hanno delle responsabilità e fanno a modo loro un lavoro in questa rivoluzione. E su questo terreno rivoluzionario, in questa atmosfera, le differenze di cui abbiamo parlato vengono spezzate, così come anche le differenze di classe. Le persone spezzano queste barriere.
A marzo l’hashtag #staythefuckhome ha fatto il giro del mondo. Con questo slogan si voleva fermare la diffusione del coronavirus. Le femministe criticano che per le donne la casa è spesso il luogo dove subiscono violenza. Qual è la situazione delle donne in Iraq, come vivono in questa fase di lockdown?
Esiste un effetto positivo: gli uomini ora vivono l’esperienza di dover stare effettivamente sempre a casa. Sembra cinico, ma è così. L’ho detto prima: per molte donne la quarantena già da tempo è una realtà di vita quotidiana, non lo è diventata con la pandemia. Nelle famiglie conservatrici, le donne non possono uscire di casa, se non per motivi specifici e urgenti. C’è un’enorme pressione su di loro, hanno una grande responsabilità. Con il lockdown, gli uomini hanno capito le loro condizioni. Iniziano a capire la pressione, vivono, almeno in parte, le sofferenze delle donne e il loro dolore. Da questo punto di vista, si tratta di un effetto positivo.
Ma gli effetti negativi sono così gravi e così tanti che non riesco neanche ad elencarli tutti. La cosa più problematica è che con il lockdown gli uomini stanno in casa 24 ore su 24. Disturbano, si intromettono inutilmente nelle faccende di casa, ma soprattutto aumentano anche la pressione sulle donne, semplicemente con la loro presenza. Molti uomini, per esempio, se ne stanno seduti tutto il giorno senza fare niente, senza aiutare nel lavoro di casa e di cura. In questa situazione, la pressione sociale sulle donne aumenta enormemente, soprattutto per le donne che vivono non solo con il marito, ma con tutta la sua famiglia. Questo è un elemento fondamentale perché si tratta di situazioni familiari molto diffuse in Iraq. Quello che sta succedendo in questa quarantena è che una donna deve fare i conti non solo con suo marito, ma anche con suo fratello, suo padre – con tutta la famiglia. Deve occuparsi di tutti gli uomini della famiglia, servirli, sopportarli. Se un marito ha quattro fratelli, la donna deve occuparsi almeno di cinque uomini. È una pressione incredibile, caratterizzata da molta violenza. E questa violenza non viene solo dal marito, ma anche dai fratelli o dal padre. Chiaramente, la violenza aumenta in queste condizioni determinate dal lockdown. Recentemente c’è stato un terribile femminicidio: una donna che viveva con il marito e la sua famiglia è stata uccisa, bruciata proprio da suo marito. Attualmente tutta la stampa ne parla; ci sono molte speculazioni sulle ragioni di questa violenza. Ma qualunque sia stata la ragione, è ovvio che niente al mondo giustifichi un tale atto. Questo è uno dei tanti casi di violenza che si stanno verificando in questa situazione di lockdown e penso che abbia molto a che fare con quello che le donne stanno vivendo: sono costrette a stare a casa tutto il giorno con tutti questi uomini.
Un altro punto importante riguarda l’onore della famiglia. In Iraq c’è questa sorta di onore familiare che consente alla famiglia di “disporre” della donna e di tenerla sotto il proprio controllo. Ad alcune donne contagiate con il coronavirus è stato impedito di andare in ospedale. Perché? Per l’onore della famiglia. Questo cosa significa? Che il motivo per cui impedisci a tua sorella o a tua madre di farsi curare per il coronavirus in una clinica è che ti dici: “non sappiamo cosa succederà nell’ospedale a questa donna; potrebbe essere molestata o addirittura potrebbe diventare lei stessa sessualmente attiva con qualcuno là dentro”. Quindi a causa di questo onore familiare, alcune donne non sono state minimamente curate, cosa che in alcuni casi ha perfino provocato la loro morte.
Ma esiste ancora un altro elemento: alcuni sono convinti che il coronavirus sia simile all’HIV. Nelle comunità musulmane, l’Aids significa: se vieni contagiato, sei in pericolo e sotto un’enorme pressione sociale. Si dice che non saresti stato contagiato dall’Aids se fossi stato un brav’uomo o una brava donna. La stessa logica domina il discorso sul coronavirus. Quindi quando una donna si infetta, subisce la stessa pressione sociale perché le famiglie pensano che se fosse stata una donna buona e onesta non sarebbe stata contagiata. Questo ha a che fare con questa società e con le idee reazionarie e le tradizioni tribali.
Quali sono gli effetti della pandemia dal punto di vista di classe? Molte persone in Iraq sono disoccupate o lavorano in condizioni precarie, spesso vivono alla giornata. Qual è la loro situazione attualmente?
Di fronte alla pandemia molti decidono di scegliere la morte; vuol dire che preferiscono lavorare e contagiarsi con il virus piuttosto che stare a casa a morire di fame. La pandemia ha mostrato ancora una volta la quantità impressionante di persone precarie e disoccupate in Iraq. Il governo non ha risposto in nessun modo alle loro esigenze. Anzi, possiamo perfino affermare l’opposto: se i lavoratori precari violano il lockdown perché vanno a lavorare semplicemente per sopravvivere, molto spesso il governo li multa.
Quello che il governo dovrebbe effettivamente fare è pagarli per farli rimanere a casa – una sorta di assicurazione contro la disoccupazione. Per i lavoratori precari il governo dovrebbe pagare un minimo di sicurezza per i prossimi quattro o cinque mesi, almeno fin quando dura il lockdown. Non possono rimanere a casa e morire di fame mentre scivolano in condizioni sempre più precarie perché vengono a mancare soldi e provviste alimentari. Soprattutto per chi vive alla giornata, questo sistema non funziona. Certo esistono strutture solidali di mutuo soccorso; del resto è molto comune nella nostra società aiutarsi in diversi modi, condividere il cibo etc. Ma nelle città ci sono anche quartieri molto distanti, come ad esempio a Baghdad o in regioni più lontane, dove il mutuo soccorso non riesce ad arrivare a causa del lockdown.
Cosa ci puoi dire sulle cure mediche? In un’intervista un tuo compagno ci aveva spiegato che il sistema sanitario iracheno è uno dei peggiori al mondo. Ci potresti spiegare più in dettaglio la situazione sanitaria in Iraq? Come siete messi con l’apparecchiatura negli ospedali? Chi ha accesso alle cure mediche?
L’intero sistema politico e sociale iracheno è corrotto, il sistema sanitario non fa eccezioni, anzi: lo è particolarmente. Ci sono alcuni accordi tra l’Iraq e altri paesi, come la Cina per esempio, che sono nati in queste condizioni corrotte e che includono la distribuzione di medicinali di bassa qualità che non corrispondono agli standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). In Iraq, la gente muore per questo pessimo sistema sanitario. In realtà, tutti hanno diritto a cure e medicinali gratuiti, ma si tratta di una farsa, una specie di copertura: negli ospedali dobbiamo pagare tutto, le medicine, le attrezzature. L’industria farmaceutica privata e gli ospedali privati vengono incentivati. Per esempio, se vai in un ospedale pubblico e ti prescrivono un medicinale, di diranno di andarlo a comprare in una farmacia privata. Questo è vero e proprio marketing. Oppure se vai dal medico per farti curare, ti dirà che il trattamento lo farà nel suo studio privato dove sei costretto a pagarlo direttamente tu. Perché non lo fa all’ospedale pubblico dove lavora? In questo modo, il settore del sistema sanitario che viene supportato è solo quello privato. Sei obbligato a farti curare nelle cliniche private, a comprare i medicinali nelle farmacie private; e quando ti rechi in un ospedale pubblico, ti mettono semplicemente da parte.
Ma esistono ulteriori problemi. Di solito, i pazienti vengono trattati molto male. C’è una carenza di consapevolezza della pulizia e della sterilizzazione. Spesso sei costretto a pagare 10, 20 dollari alle infermiere e agli operatori sanitari per mantenere la stanza pulita e seguire il paziente. Le malattie sono mal diagnosticate e spesso le persone muoiono per queste negligenze. La ragione principale è la scarsa dotazione di apparecchiature negli ospedali pubblici; non esistono apparecchiature moderne, ad esempio per le radiografie o le analisi mediche.
Anche i medici sono sotto costante minaccia di morte. Il governo non li protegge dalle dinamiche tribali: se un paziente muore, anche senza che nessuno abbia commesso un errore, accade spesso che la tribù in questione si vendichi e uccida il medico perché pensano che il medico abbia lasciato morire la persona in questione. Di conseguenza, molti medici emigrano o cambiano semplicemente lavoro. Il governo non gli garantisce nessuna protezione.
L’Iran è uno dei paesi più colpiti dalla pandemia, con un numero di contagi ufficiali di 110.000 e quasi 7.000 decessi. Avete contatti con i compagni iraniani? Com’è la situazione lì?
Prima di tutto, come fanno le persone in Iran, speriamo che tutto passi velocemente visto l’elevato numero di contagi e morti. Esiste una solidarietà storica tra il popolo iracheno e quello iraniano e questa solidarietà aiuterà a superare questa difficile pandemia. Purtroppo in quanto Workers Against Sectarianism non abbiamo nessun contatto diretto con i compagni iraniani – stringere legami è particolarmente difficile con la repressione che si vive sotto le condizioni dittatoriali in Iran. Singolarmente abbiamo degli amici in Iran e le informazioni ci raggiungono regolarmente anche grazie alla vicinanza geografica e i social media. Siamo stati informati che il regime iraniano sta trattando particolarmente male i detenuti. Il coronavirus viene usato per uccidere i militanti politici che si trovano in carcere. Come in Iraq, il virus ha salvato il regime dal collasso perché anche lì c’era un movimento sociale molto forte. Anche lì il regime sta espandendo il controllo sociale di cittadini e militanti politici. È molto probabile che le misure contro la pandemia in realtà servano solo ad opprimere ulteriormente la popolazione – dopo tutto, si tratta di un regime fortemente settario e rigido. Molte persone contagiate vengono semplicemente abbandonate al loro destino e lasciate senza cure. Inoltre, lo stato iraniano non ha stanziato abbastanza fondi per combattere il virus. Questo si può anche considerare un modo di uccidere: trascurare le persone contagiate e far morire i nemici politici in prigione. Nena News
Sarah Quadir è un’attivista politica che milita in Workers against Sectarianism. Lavora nell’industria farmaceutica e vive a Baghdad