La ECRF denuncia la sparizione forzata di decine di persone, mentre si aspettano proteste per l’anniversario della rivolta del 2011, che mise fine all’era Mubarak. Intanto, il Paese si aggiudica il secondo posto della classifica degli Stati con più giornalisti in carcere
della redazione
Roma, 27 dicembre 2015, Nena News – Mentre si avvicina il quinto anniversario della rivolta che il 25 gennaio del 2011 mise fine al trentennale regno dell’ex presidente Hosni Mubarak, si torna a parlare delle violazioni dei diritti umani in Egitto. In particolare della persecuzione dei giornalisti e delle decine di persone scomparse nel nulla dopo il golpe militare del luglio del 2013, quando il presidente Abdel Fattah Al-Sisi è salito al potere rimuovendo con la forza il primo presidente eletto del post 2011: Mohamed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani.
La fine del regime autocratico di Mubarak non ha portato alle libertà rivendicate dalla piazza e gli ultimi anni sono stati cadenzati da denunce e rapporti delle Ong locali e internazionali sulle violazioni e sugli abusi commessi dalle forze di sicurezza e dai militari. La repressione del dissenso sta caratterizzando la presidenza di Al Sisi: centinaia di condanne a morte; torture in carcere e nelle caserme; messa al bando e persecuzione dei Fratelli Musulmani, ma anche delle forze laiche che da piazza Tahrir invocavano libertà e diritti; stretta sulla stampa; leggi liberticide.
A intervenire di recente è stato il premio Nobel ed ex vicepresidente egiziano Mohamed ElBaradei che ha parlato della possibilità che il Consiglio di sicurezza dell’Onu possa portare davanti alla Corte penale internazionale (ICC) i casi dei desaparecidos egiziani. Se ne parla da mesi e altri rapporti sono usciti di recente per denunciare le sparizioni forzate seguite al golpe del 2013. Secondo le stime dell’Organizzazione araba per i Diritti umani, sono almeno 120 i casi di sparizioni forzate risalenti a un anno fa e tra gli scomparsi ci sarebbero anche donne e minorenni. Secondo altri gruppi per i diritti umani, durante i primi tre mesi del 2015 sono svanite nel nulla circa 600 persone. Il 22 dicembre la Commissione egiziana per i Diritti e le Libertà (ECRF) ha parlato di 340 persone sparite in due mesi: tre casi al giorno. Sono i numeri ricavati dalle denunce dei famigliari e molti casi non sono stati segnalati.
Le testimonianze raccolte dalla ECRF parlano di persone prelevate e trasferite in diverse parti dell’Egitto, dove hanno subito torture e abusi per ottenere confessioni e informazioni su presunti terroristi o dissidenti. Violazioni commesse con il beneplacito delle autorità e per le quali poliziotti e militari di rado vengono perseguiti. Ma all’inizio del mese il presidente si è impegnato a mettere fine alla diffusa pratica della tortura in carcere, dopo la morte in cella di diversi detenuti nel mese di novembre. È probabilmente alla luce di questo nuovo impegno assunto da Al Sisi che si può leggere la recente condanna in contumacia di due poliziotti che avevano torturato a morte un detenuto nel 2014. Tuttavia, non pare profilarsi all’orizzonte un cambio di passo in Egitto e la repressione è di solito giustificata a ragioni di sicurezza e dal contrasto al terrorismo.
Quando mancano poche settimane al quinto anniversario della rivolta egiziana, il governo del Cairo teme manifestazioni e proteste. L’anno scorso ci furono 17 morti e decine di arresti. L’uccisione dell’attivista Shaimaa Al-Sabbagh, 32 anni, colpita da un proiettile durante una protesta pacifica al Cairo scatenò indignazione, ma contro Al Sisi la cosiddetta comunità internazionale si è limitata a condanne di circostanza. Da quando è salito al potere sono finite in carcere almeno 16mila persone, stando ai dati forniti di Amnesty International, e nel mirino del generale ci sono i Fratelli Musulmani, finiti dietro le sbarre a centinaia, con condanne pesantissime. Molti condannati al patibolo. Una strategia di repressione del movimento islamico, che si era conquistato la guida del Paese alle urne, che rischia di favorire gruppi estremisti.
La repressione non ha risparmiato la stampa e il 2015 ha visto l’Egitto guadagnarsi un pessimo secondo posto, dopo la Cina, nella lista dei Paesi in cui sono in prigione più giornalisti. La graduatoria stilata dall’organizzazione newyorkese Committee to Protect Journalists rivela un deterioramento della situazione della stampa nel Paese: nel 2012, sotto la breve presidenza di Morsi, non fu arrestato neanche un giornalista, mentre nel 2015 sono finiti in cella in 23, il doppio del 2014. Mancano comunque dati ufficiali sui reporter in carcere.
Intanto, nel Paese c’è attesa per l’anniversario della rivolta e il dibattito è aperto: gli appelli a scendere in piazza non mancano, ma non molti credono a una partecipazione massiccia o, addirittura, a un’altra rivolta, evocata da alcuni. Ministri ed esponenti religiosi hanno esortato i cittadini a non protestare, anche se ogni venerdì ci sono manifestazioni in diverse città proprio in preparazione del 25 gennaio.
Secondo quanto riportato dal Daily News, a margine del suo discorso all’università Al-Azhar, all’inizio della settimana, alla domanda se le sparizioni forzate e le detenzioni dei giornalisti potessero innescare un’altra sollevazione, Al Sisi ha detto che le “rivoluzioni portano a violazioni dei diritti umani e a perdite senza precedenti”. Nena News