Dopo un intero anno di protesta il movimento algerino è costretto a lasciare le strade, ma la mobilitazione continua insieme a rivendicazioni politiche, sociali ed economiche rese ancora più urgenti dall’epidemia. Intervista a Saïd Salhi, vicepresidente della Lega algerina per i diritti umani
di Maurizio Coppola
Roma, 14 aprile 2020, Nena News – Dopo un intero anno di manifestazioni permanenti, non è stato né la repressione del pouvoir – come viene chiamato il regime algerino – né un’apertura politica democratica a fermare il movimento sociale hirak.
Per oltre un anno le strade delle maggiori città algerine si sono costantemente riempite con quattro rivendicazioni principali: una nuova repubblica civile con l’esclusione dei militari dagli affari politici; l’instaurazione di un’assemblea costituente che prepara nuove elezioni politiche; una vera giustizia sociale; e nel corso delle manifestazioni si è aggiunto l’ultima rivendicazione: la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici.
Ma Il 20 marzo le stesse strade che durante tutto l’anno scorso erano riempite da centinaia di migliaia di persone sono rimaste vuote. Dopo l’ultima manifestazione del 13 marzo, il primo ministro algerino Abdelaziz Djerad aveva pregato gli algerini di “evitare assembramenti e proteste per prevenire la diffusione del contagio”.
Dopo discussioni contrastanti all’interno del movimento, l’hirak aveva deciso si sospendere temporaneamente le proteste. Di seguito, il 22 marzo il governo ha deciso per il lockdown totale e il coprifuoco dalle ore 15 alle ore 7 nelle maggiori città del paese.
Il virus sta sconvolgendo la vita quotidiana del paese che non pare affatto essere pronto a una tale situazione emergenziale. Se il contagio è ancora relativamente basso (a ieri si contano 1.983 contagi, 601 guariti e 313 vittime), il sistema sanitario non è sufficientemente stabile per affrontare una vasta diffusione del virus. I posti negli ospedali algerini sono di 1,9 ogni 1.000 abitanti e su tutto il territorio nazionale ci sono solo 400 letti di rianimazione. Le politiche d’austerità che hanno colpito anche il sistema sanitario sono diventate target di proteste da parte dei lavoratori della salute, l’ultima volta a fine 2017/inizio 2018, quando medici e operatori sanitari hanno occupato le strade per rivendicare più fondi e più personale per le strutture ospedaliere.
Come in altre parti del mondo, la crisi sanitaria si è trasformata rapidamente in una crisi sociale dovuta alla struttura socio-economica del paese. Più di un lavoratore su tre ormai è occupato nel settore informale; la deindustrializzazione del paese ha portato a un ridimensionamento massiccio del settore manifatturiero e il settore pubblico dagli anni 1990 ormai non riesce più ad essere un’alternativa occupazionale.
In più, l’Algeria rimane fortemente dipendente dal settore degli idrocarburi che copre il 97% di tutto l’export e il 66% delle spese pubbliche e costituisce oltre il 50% del pil nazionale. La scorsa settimana Fatih Birol, direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) dichiarava a proposito del crollo del prezzo del barile: “L’economia di Paesi come l’Iraq, la Nigeria o l’Algeria sta andando a rotoli […] le entrate dello Stato oggi bastano a malapena per pagare metà degli stipendi pubblici. Non si può pensare di risolvere tutto con tagli delle spese, con il coronavirus c’è bisogno di più soldi per il sistema sanitario. Certi Paesi oggi rischiano un collasso economico, sanitario e sociale. Tutto questo va ben oltre il prezzo della benzina alla pompa, è un problema di dimensioni enormi”.
In questo contesto di crisi sanitaria, sociale ed economica, le pouvoir tenta di utilizzare di tregua per reprimere l’hirak. Sono molteplici i casi di arresti di attivisti del movimento e di giornalisti che lo avevano accompagnato durante gli ultimi 12 mesi. Due sono di maggiore rilevanza: Il primo riguarda Abdelouahab Fersaoui, presidente dell’organizzazione giovanile Rassemplement Actions Jeunesse RAJ, condannato lunedì 6 aprile a un anno di prigione, colpevole, secondo i giudici, di aver “minando l’integrità del territorio nazionale”.
L’altro invece è Khaled Drareni, in custodia cautelare dal 29 marzo, accusato di aver incitato a un raduno disarmato e di aver messo in pericolo l’unità nazionale. Drareni, giornalista indipendente e esponente di Reporters sans frontièrs RSF in Algeria, era stato arrestato più volte per aver coperto le proteste antigovernative. L’organizzazione indipendente dei giornalisti infatti accusa il regime algerino: “È un atto di pericolo fisico, il governo sta approfittando dell’epidemia per attaccare il giornalismo indipendente”.
Il regime algerino finora si è dimostrato stabile di fronte alle rivendicazioni politiche e sociali del movimento. L’hirak non ha ancora registrato una vittoria sostanziale contro le pouvoir. Ma malgrado il temporaneo abbandono delle strade, i manifestanti hanno già annunciato il loro ritorno dopo la fine dell’emergenza sanitaria – la fine di un’emergenza che probabilmente però non riuscirà a spazzarne via un’altra, cioè quella della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali che provocherà nuove tensioni sociali.
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Abbiamo parlato con Saïd Salhi, vicepresidente della LADDH, la Ligue algérienne pour la défense des droits de l’homme e ci siamo fatti spiegare l’emergenza che sta vivendo il paese e la trasformazione attuale del movimento sociale.
Le manifestazioni sono durate più di un anno, l’hirak è sopravvissuto alla repressione, all’elezione del nuovo presidente (non riconosciuto), al cambio del capo dell’esercito dopo la morte del generale Gaid Salah. A che punto vi trovate oggi?
Il movimento del 22 febbraio, comunemente noto come hirak, ha sin dall’inizio posto il problema del sistema politico, da qui lo slogan “Yetnahaw Gaa” [andatevene tutti]. La nostra rivendicazione è chiara: cambiamento del sistema politico attraverso una transizione democratica, pacifica e negoziata. In questo senso non si può parlare di cambiamento parziale. E dopo un anno, non esiste ancora una struttura democratica. L’intero sistema attuale è ben lungi dall’essere democratico. Stiamo assistendo addirittura a una regressione in termini di libertà democratiche già acquisite.
Dalla destituzione di Bouteflika fino alla morte di Gaid Salah, i conflitti all’interno dell’apparato di potere erano almeno parzialmente riconoscibili. Oggi il regime si presenta di nuovo come un blocco monolitico. Esistono conflitti all’interno dell’attuale blocco sociale dominante?
Il potere ha subito delle scosse già durante il quarto mandato di Bouteflika, pesantemente diviso all’interno sulla questione della successione al vertice. Il movimento del 22 febbraio ha accelerato questa divisione interna, chiedendo appunto il cambiamento dell’intero sistema. Ma abbiamo dovuto assistere a una transizione da un clan all’altro, transizione che si è consolidata con l’elezione di un nuovo rappresentante del sistema nella persona di Abdelmadjid Tebboune, presidente eletto ma non riconosciuto, che sta chiaramente lottando per ricostruire la coesione del sistema di potere. Malgrado le elezioni presidenziali del 12 dicembre non siano state capace di conquistare la maggioranza e il sostegno della società algerina [partecipazione al di sotto del 40%], le pouvoir sta facendo di tutto per riprendere in mano il controllo della vita sociale.
Quale politiche sta applicando il nuovo presidente per combattere la diffusione del coronavirus?
Il virus è chiaramente un nuovo elemento che cambia tutto, perché ha imposto una tregua sanitaria all’hirak che giustamente ha deciso volontariamente di sospendere le manifestazioni e gli incontri. Dal punto di vista del regime, questo virus viene trattato a diversi livelli. Sul piano politico, è visto come una manna dal cielo per liberarsi dell’hirak, perciò l’escalation della repressione e degli arresti dei leader del movimento e di giornalisti che coprivano le attualità dell’hirak. Sul piano sanitario, il potere si trova di fronte a una grande sfida, perché deve limitare il pericolo e mobilitare la società in un contesto di totale mancanza di fiducia e consenso. Il nostro sistema sanitario ha dei forti limiti e avrà grandi difficoltà ad affrontare una diffusione del virus. Da qui l’appello dell’hirak per una maggiore consapevolezza e prevenzione come unica misura e risposta al rischio Covid-19. Anche sul piano sociale la situazione è catastrofica. Con l’improvviso calo dei prezzi del petrolio, le autorità hanno difficoltà a mobilitare risorse per rispondere all’emergenza, al bisogno di sostegno e di solidarietà. La crisi sociale comincia già a farsi sentire.
Appunto, il governo sembra utilizzare questa situazione di crisi per liberarsi dell’hirak aumentando la repressione, soprattutto arrestando i rappresentanti del movimento e i giornalisti.
Per quanto riguarda le prigioni, è vero che in un momento in cui altri Paesi stanno rilasciando prigionieri, il nostro governo ha aumentato la repressione contro l’hirak e gli arresti di attivisti del movimento. Con il sovraffollamento delle carceri, temiamo che il contagio scatenerà un caos nelle carceri.
Per il momento le manifestazioni sono sospese. Come si organizza e struttura l’hirak durante questo periodo di coprifuoco e distanziamento sociale?
Di fronte al pericolo della Covid-19, l’hirak ha deciso di assumersi le sue responsabilità, sospendendo appunto le manifestazioni, ma rimanendo in ogni caso un soggetto attivo nella lotta contro la diffusione del virus. Quindi non abbiamo né deciso di frenare né di arrenderci di fronte al pericolo del virus. Anzi: Oggi l’hirak chiede maggiore organizzazione e ancora più solidarietà. Gli attivisti si stanno mobilitando in campagne di sensibilizzazione, si organizzano per disinfettare i luoghi pubblici, produrre maschere e altri dispositivi di protezione, gel disinfettante e fornire aiuto a chi ne ha più bisogno in questa situazione d’isolamento sociale. Se il nostro attivismo si è trasferito maggiormente sui social con discussioni e campagne di sensibilizzazione online, manteniamo altre attività materiali appendendo bandiere dell’Algeria sui balconi, cantando cori di solidarietà con i detenuti etc.
Nella maggior parte dei paesi, i sistemi sanitari sono stati smantellati in modo da non essere in grado di rispondere alle emergenze. L’Algeria Come sta affrontando questa crisi sanitaria?
Il governo ha stanziato dei fondi per affrontare la crisi sanitaria, ma allo stesso tempo ha fatto appello alla popolazione per delle donazioni private. La società, soprattutto l’hirak, è in anticipo chiamando all’auto-isolamento e organizzandosi a livello locale. Proprio mentre dovrebbe proporre un piano nazionale che coinvolge tutti i settori sociali e produttivi per combattere il virus, le pouvoir sta reagendo solo lentamente. Il nostro sistema sanitario, con i mezzi a disposizione, non è preparato alle emergenze e non saremo in grado di rispondere a una crisi della portata vissuta in Cina o in Italia. Nonostante i medici e gli operatori sanitari stiano facendo un lavoro immenso, il nostro sistema sanitario è insufficiente. Il potere continua a tergiversare: Nella città di Blida, che è considerato un focolaio del virus, le autorità sono stati lenti a imporre il confinamento, così che il virus si è potuto diffondere in una ventina di wilaya [dipartimenti].
Come sta reagendo il popolo algerino a questa crisi?
All’inizio c’era molta confusione, ma quello che sta succedendo altrove, soprattutto in Italia, ci aiuta a capire le dinamiche sanitarie e politiche del virus. Il nostro problema è che il pericolo del virus si presenta sullo sfondo di una crisi politica, con una mancanza di comunicazione, una mancanza di fiducia nelle autorità. Quindi se siamo noi a dover convincere la società della pericolosità del virus, allo stesso tempo siamo anche costretti a dare una risposta alle difficoltà. La prima risposta è l’auto-isolamento. Rimanere a casa è una decisione difficile per la quale non si è preparati quando si è costretti a lavorare per provvedere ai bisogni della famiglia. Non scordiamoci infatti che la maggior parte dei posti di lavoro in Algeria sono nel settore informale. Ma la risposta del governo chiaramente non prende in considerazione questa realtà. E quindi il popolo algerino si organizza con i mezzi a disposizione tipo la solidarietà familiare e quella nei quartieri popolari. L’hirak si dimostra un’opportunità in queste situazioni, perché già organizzato.
Il coronavirus ha quindi accelerato una crisi economica e politica molto più profonda, legata all’economia globale in cui sono integrati i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Cosa significa questa situazione, a medio e lungo termine, per l’Algeria e per l’hirak?
Sì, ci sono molte crisi e altrettante sfide. La prima, come dicevo sopra, è la sopravvivenza, quindi vincere questa battaglia contro il virus. Dopodiché, cambiare il sistema politico rimane centrale, è la chiave di volta di tutte le soluzioni sociali ed economiche. Siamo un paese che dipende fortemente dai proventi petroliferi e da anni viviamo in balia delle fluttuazioni dei prezzi. La centralità della rendita petrolifera produce cupidigia, corruzione ad alti livelli e distrugge il valore del lavoro. Per uscire da questa crisi, l’Algeria deve trovare una svolta in direzione di una produzione diversificata, non centrata esclusivamente sugli idrocarburi. Una tale svolta però non è nei piani di chi ci governa. Per questo la politica ha il primato su tutto: il popolo algerino deve riacquistare la sua sovranità ed esercitare la sua volontà per la costruzione di uno Stato democratico, sociale e civile. Nena News