Il paese, considerato l’unica pagina felice delle cosiddette ‘primavere arabe’, prosegue il proprio processo democratico tra la minaccia del radicalismo islamico e le molte sfide economico-sociali rimaste irrisolte
di Giovanni Pagani
Roma, 16 gennaio 2016, Nena News – Alle 17.50 del 14 gennaio 2011 Zine El-Abdine Ben Ali lasciava Tunisi per l’ultima volta. Si sarebbe diretto a Jeddah, in Arabia Saudita, dove in quanto musulmano avrebbe ottenuto asilo politico alla corte degli al-Saud, accompagnato dalla moglie Leila e dai suoi due figli. Era l’epilogo di un regime durato ventitré anni e spazzato via in meno di un mese: esattamente ventotto giorni dopo che il venditore ambulante Mohammed Bouazizi si era dato fuoco davanti al municipio di Sidi Bouzid, il 17 dicembre 2010.
Fu proprio a seguito di quel gesto disperato che migliaia di tunisini trovarono il coraggio di scendere in strada chiedendo la caduta del regime. Nelle settimane successive, proteste analoghe esplosero in Egitto, Libia, Yemen, Bahrein e Siria, e in misura minore in Marocco e Algeria: era l’inizio delle rivoluzioni arabe.
E nel domino partito da Sidi Bouzid e giunto rapidamente in Siria – passando per il Cairo, Tripoli, Sana’a e Manama – la Tunisia non fu solo la scintilla iniziale, ma soprattutto il tassello più felice e compiuto. Le istituzioni statali rimasero preservate nella loro integrità, il panorama politico del paese vide la reintegrazione del partito islamista Ennahda – messo al bando da Ben Ali già nel 1989 -, lo scontro civile fu evitato a più riprese e le prime elezioni libere si svolsero con successo. Tuttavia,nonostante l’innegabile ‘eccezionalità tunisina’, il paese rimane politicamente sospeso tra laicismo e islamismo, offrendo un esempio contraddittorio del rapporto tra progresso democratico, diritti civili e tendenza al radicalismo religioso.
Sul fronte della stabilità politica, la crisi egiziana del luglio 2013 e l’inarrestabile sgretolamento della vicina Libia hanno senza dubbio messo in guardia gli organismi statali e della società civile tunisina di fronte ai rischi e alle difficoltà della transizione politica. Da questa prospettiva, il timore di una crisi di governo ha sempre fatto prevalere il compromesso e la mediazione, come testimonia anche la recente assegnazione del Premio Nobel per la pace al ‘quartetto per il dialogo nazionale tunisino’.
Tuttavia, nonostante l’unità nazionale sia stata preservata a più riprese, molti analisti si dimostrano scettici di fronte ai futuri scenari di governabilità. L’alleanza siglata lo scorso anno tra il partito laico Nidaa Tounes – vincitore alle elezioni dell’ottobre 2014 – e la rivale formazione islamista Ennahda, fondamentale per la stabilità politica del paese, è infatti di forte ostacolo alle riforme economiche e sociali di cui la Tunisia ha urgente bisogno. Inoltre, a dispetto della fiducia incassata l’11 gennaio dal nuovo gabinetto dal premier Habib Essid, la defezione di 22 parlamentari di Nidaa Tounes che hanno dato vita ieri ad una nuova formazione politica sotto il nome al-Horra, ha alterato gli equilibri interni al parlamento, dove Ennahda risulta di fatto prima forza politica con soli due ministri nel nuovo governo.
In questo quadro, se tali divisioni non minano direttamente alla stabilità del paese, uno scenario d’ingovernabilità sarebbe deleterio sul medio-lungo termine. A cinque anni dalla rivoluzione, molte delle ragioni per le quali i tunisini scesero in piazza attendono ancora risposta. La ripresa economica e la lotta al terrorismo – i principali obiettivi tracciati dal premier Essid nel giorno dell’anniversario – costituiscono indubbiamente le maggiori sfide degli anni a venire, ma non possono prescindere dalla difesa dei diritti civili e da adeguate politiche sociali. In altre parole, i tre attentati di matrice jihadista che hanno scosso il paese nel 2015 pongono una grande sfida sul piano della sicurezza, ma rappresentano soprattutto un segnale allarmante di come la marginalizzazione di alcune aree, periferiche o rurali, e la distanza tra cittadini e Stato aprano un terreno fertile tanto al reclutamento dei gruppi qaedisti quanto alla retorica di Daesh. Mentre la diretta conseguenza del terrorismo sul tortuoso percorso democratico intrapreso dal paese si traduce in una maggiore limitazione delle libertà personali e politiche.
A tal proposito, un report stilato da Amnesty International ha recentemente evidenziato come la tortura dei detenuti stia facendo velocemente ritorno nelle carceri tunisine; mentre la condanna a tre anni per sodomia di sei studenti omosessuali a dicembre – poi rilasciati su cauzione il 7 gennaio scorso – è stato un episodio poco incoraggiante per un paese che negli stessi giorni ritirava a Oslo il Premio Nobel per la pace.
Sospesa dunque tra queste contraddizioni, in uno stato d’emergenza esteso fino al 22 febbraio e con oltre 5.000 giovani già tra le fila di Daesh, la Tunisia ha festeggiato giovedì la propria rivoluzione. Nena News