Oggi alle 18.30 al Teatro Ghirelli di Salerno il giornalista libanese Nizar Hassan racconterà il paese dei Cedri, la situazione socio-economica e lo stato di salute del movimento popolare nato nell’ottobre 2019. Lo abbiamo intervistato
di Chiara Cruciati
Roma, 16 dicembre 2021, Nena News - Sarà oggi a Salerno, al Teatro Ghirelli: appuntamento alle 18.30 nell’ambito della rassegna Mediterraneo Contemporaneo. Dopo cucina, fumetti e letteratura, in Italia arriva Nizar Hassan, giornalista e leader del movimento Li Haqqi (Per i miei diritti), che affronterà il Libano di oggi, la grave crisi economica e sociale che ha impoverito la popolazione, la sconfitta – forse solo apparente – del movimento popolare nato nell’ottobre 2019 e la controrivoluzione della classe dirigente.
Sull’orlo del baratro, il Libano sta vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia, fatta di guerre civili, settarismo, occupazioni esterne e guerre, ma anche di accoglienza, creatività, cultura, spirito di iniziativa. Un paese che è un paradosso, in bilico tra divisioni interne e apertura al prossimo, tra fratture settarie e una società composita. Una società messa a rischio da un impoverimento collettivo, di natura politica: le scelte della classe dirigente, rimasta al suo posto nonostante la rivoluzione di due anni fa, hanno allargato ancora di più il gap tra ricchi e poveri.
Di questo parlerà oggi Nizar Hassan. Anticipiamo alcuni dei temi in una breve intervista.
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«Se si chiede a una qualsiasi famiglia libanese “cosa avete mangiato oggi?”, la maggior parte risponderà “frutta e verdura”. Sono i prodotti che costano di meno. Si sopravvive ma con difficoltà».
Il buco nero in cui il Libano pare essere caduto non ha fine apparente. Aumentano fame e povertà e in parallelo cresce il numero di chi rinnova il passaporto per fuggire all’estero. In mezzo sta la controrivoluzione: la sconfitta del movimento popolare di protesta da parte della classe dirigente, capace di non farsi abbattere dalla rivolta.
Ne abbiamo parlato con il giornalista Nizar Hassan, leader del movimento Li Haqqi (Per i miei diritti), oggi a Salerno al Teatro Ghirelli alle 18.30 nell’ambito della rassegna Mediterraneo Contemporaneo, curata da Maria Rosaria Greco.
Carenza di elettricità, carburante, medicinali, cibo: come vivono oggi i libanesi?
Sul piano socio-economico la situazione è tragica. Siamo di fronte a un totale collasso economico e finanziario. La moneta non vale nulla e i beni costano fino a dieci volte di più del passato. Il governo ha sospeso i sussidi per cibo, medicinali e carburante, imponendo un’improvvisa austerity. La gente non può permettersi i beni basilari. Solo il prezzo dell’elettricità fornita dallo Stato è rimasto quello originario, ma non ci si può fare affidamento: è disponibile poche ore al giorno e chi può usa generatori privati. Ma il carburante è venduto ai nuovi prezzi, altissimi: per pagarsi il gas da cucina o per il riscaldamento serve un intero salario.
Istituzioni internazionali, come l’Onu, e organizzazioni umanitarie avvertono da mesi del rischio di una crisi alimentare in Libano. La necessità di coprire i bisogni basilari sta cambiando la società?
La società è molto più povera di prima. Il nostro era un paese che non se la cavava male, anche grazie all’introduzione di dollari nell’economia e alla stabilità della sterlina. Quel modello economico però è collassato e ne serve uno nuovo per poter sopravvivere. C’è fame in Libano, ma spesso è invisibile per la presenza di molte iniziative umanitarie. La gente, soprattutto quella che vive nelle zone non marginalizzate, la classe media, non è abituata a mostrare la propria povertà, ne prova vergogna. È una mentalità da classe media, la marginalizzazione non è accettata né usata per accendere conflitti sociali.
Due mesi fa Beirut è stata teatro di scontri armati tra la destra falangista ed Hezbollah. È la spia di una guerra settaria che potrebbe esplodere?
Lo scontro settario non è un disastro naturale. È una decisione politica delle fazioni politiche. Lo preferiscono alla condivisione del potere in parlamento o al confronto sui media. Quando le istituzioni politiche e giudiziarie non funzionano più, chi è al potere vede nello scontro settario una possibilità di sopravvivenza. Siamo di fronte a una guerra civile senza guerra: il livello di polarizzazione intorno a Hezbollah e alle potenze regionali e gli scontri armati a Tayouneh sono lo specchio di cos’è oggi il Libano, una democrazia solo in apparenza pacifica con milizie armate nelle strade che si uccidono a vicenda.
È un sistema che mantiene i libanesi divisi in gruppi settari, basato sulla promessa fallace che quel gruppo li proteggerà. La guerra civile finisce per essere la vera natura del sistema, creato e implementato in modo da essere una continuazione della guerra civile nonostante dicano di averlo immaginato così proprio per evitare le divisioni interne. La retorica della classe dirigente è molto più dura e polarizzata di quanto fosse nel 1975. Non si tenta neppure più di nascondere il linguaggio settario e reazionario. Ora attendiamo le elezioni della primavera del 2022, lì si vedrà come «risolveranno» queste divisioni.
A due anni dall’inizio della rivolta popolare dell’ottobre 2019, qual è lo stato di salute del movimento?
Il movimento popolare libanese è stato sconfitto, lo abbiamo capito ora. Non solo non abbiamo ottenuto i nostri obiettivi, ma è accaduto l’opposto di quel che chiedevamo. Lo si è visto con gli scontri settari di Tayouneh. Quella libanese è stata una perfetta controrivoluzione, ha assunto diverse facce di cui la peggiore è stata convincere le persone di non avere alcuna influenza. Milioni di persone sono scese in piazza per cambiare il destino del Libano e per evitarne il collasso, ma non ce l’hanno fatta e chi è al potere ha riprodotto le stesse dinamiche politiche. Il settarismo che governa il sistema bancario e finanziario ne ha provocato il collasso e nemmeno le istituzioni internazionali riescono a imporre riforme alla politica libanese. Siamo al punto in cui l’Fmi sembra più progressista della nostra classe dirigente, è ridicolo.
In questa situazione, le persone sono convinte di non avere alcun potere di cambiare le cose e questo ha provocato una depressione collettiva. Nessuno vive più la propria vita né guarda al futuro. Il movimento popolare sta vivendo un brutto momento, vedremo forse una ripresa in vista delle elezioni, ma la maggior parte dell’attivismo politico usa pratiche della classe media e non ha prodotto metodi alternativi per fronteggiare la controrivoluzione e le diseguaglianze.
Articoli e rapporti parlano di un aumento dell’emigrazione all’estero. Chi parte?
Chi può tenta di partire, soprattutto i giovani e le famiglie che hanno le risorse per farlo. Non sono i poveri ad andarsene, non possono permetterselo, ma la classe media. Partirei anche io se potessi. È l’unico modo per vivere una vita dignitosa, lontano da una società sconfitta, impoverita, con meno risorse per combattere oppressione e ingiustizie, più facile da manipolare e sfruttare.