Le proteste dei conservatori limitano la decisione del ministero della Difesa: le donne potranno entrare nell’esercito ma solo con il permesso di un uomo e comunque senza armi. Le associazioni di donne promettono iniziative legali
della redazione
Roma, 17 febbraio 2022, Nena News – “Un passo avanti e due indietro”, questo il commento che gira tra le donne kuwaitiane dopo la decisione del ministero della Difesa di autorizzare la partecipazione femminile nell’esercito, con ruoli di combattimento, ma senza armi. E solo con il permesso del guardiano.
La protesta, come spesso accade oggi, passa per i social network dove tantissime donne manifestano rabbia per una decisione che ricalca la struttura patriarcale della società del paese del Golfo. Alcune di loro raccontano le storie delle loro mamme: “Mia madre durante l’invasione irachena nascondeva le armi sotto la sua abaya e le trasportava alla resistenza del Kuwait. Mio padre la incoraggiava”, ricorda Ghadeer al-Khashti, insegnante di ginnastica e membra del comitato delle donne della Kuwait Football Association.
La decisione del ministero risale, in realtà, allo scorso ottobre. Lo aveva annunciato il ministro della Difesa Hamas Jaber al-Ali al-Sabah:”Il tempo è giunto per le donne kuwaitiane, per dare loro la possibilità di entrare nell’esercito del Kuwait fianco a fianco con i loro fratelli”.
Le restrizioni sono giunte dopo a seguito delle proteste di parlamentari conservatori, tra cui Hamdan al-Azmi che, forte di una fatwa, ha affermato che il combattimento militare “non rientra nella natura delle donne”. Lo stesso Azmi era stato particolarmente attivo su Twitter quando aveva denunciato come “pericoloso” e “alieno alla nostra società” un ritiro di donne per un giorno nel deserto per praticare yoga, sospeso dalle autorità e per questo oggetto, il mese scorso, della protesta di decine di kuwaitiane.
Dunque sì alle donne nell’esercito ma con restrizioni. Servirà il via libera di un uomo, il cosiddetto guardiano, la figura che nei paesi sunniti del Golfo – e non solo – ha l’autorità di decidere per la donna, che sia la moglie, la figlia o la nipote: dove andare, quando uscire, che scuola frequentare, se e dove lavorare, addirittura se uscire di prigione scontata una pena.
Seguiranno reazioni. La Kuwaiti Women’s Cultural and Social Society, per bocca della sua presidente Lulwa Saleh al-Mulla, ha già annunciato iniziative legali contro la decisioni, giudicata discriminatoria e non costituzionale: “Siamo un paese musulmano, è vero – ha detto all’Afp – ma chiediamo che le leggi non siano soggette a fatwa. La libertà personale è garantita dalla costituzione, su cui tutte le leggi sono fondate”.
Non si ferma dunque la lunga e accidentata lotta delle donne del Kuwait per i propri diritti: considerata una delle società più aperte del Golfo in merito, il paese aveva riconosciuto il diritto al voto sia attivo che passivo delle donne nel 2005, in anticipo rispetto alle petromonarchie vicine, ma decisamente in ritardo rispetto al resto del Medio Oriente.
La realtà è fatta di molto altro e il movimento #MeToo arrivato nel 2021 nel paese lo ha dimostrato. Il codice penale, spesso in contraddizione con la costituzionale, mantiene l’uomo un gradino più in alto delle donne, infantilizzate e discriminate nella loro capacità di prendere parte alla società: ne sono esempi il delitto d’onore o il matrimonio “riparatore”, così chiamato seppure si parli di stupro. Da tempo le donne lo denunciano: le leggi interne, in particolare quelle penali, mantengono in piedi una struttura patriarcale della società.
Solo nell’agosto 2020 il parlamento ha approvato la legge 16 sulla violenza domestica. I deputati hanno introdotto pene per i responsabili e previsto misure di protezione per le vittime, tra cui ordini restrittivi e assistenza legale. Ad essere criminalizzato dalla legge, però, non è l’atto di violenza in sé, ma la violazione degli ordini della corte assunti dopo una prima denuncia. Nena News