Meir Ettinger, estremista israeliano considerato il responsabile del rogo di Douma, sarà scarcerato a fine maggio alla scadenza della detenzione amministrativa. Un processo per omicidio non è stato mai aperto “per mancanza di prove”
della redazione
Gerusalemme, 18 maggio 2016, Nena News – Tornerà in libertà tra 15 giorni l’estremista israeliano Meir Ettinger, considerato dai servizi israeliani la mente dietro il rogo che il 18 giugno dello scorso anno uccise nel villaggio di Douma tre membri della famiglia Dawabsha, il piccolo Ali di 18 mesi, il padre Saad e la madre Riham, lasciando in vita solo Ahmad di soli 4 anni.
In prigione sotto detenzione amministrativa (misura di custodia cautelare che non prevede processo, strumento abusato dalle autorità israeliane contro i palestinesi, ma mai applicata ad un ebreo israeliano), Ettinger sarà scarcerato perché il procuratore di Stato ha deciso di non rinnovare l’ordine, che quindi scadrà a fine maggio. Era stato arrestato ad agosto insieme ad altri sospettati dell’incendio di Douma, vicino Nablus, e detenuto perché considerato dallo Shin Bet (i servizi segreti interni israeliani) membro di un’organizzazione ebraica terroristica. Insomma, l’accusa che pendeva su di lui e sugli altri era quella di “crimini nazionalisti”, ma non dell’attacco incendiario in sè.
Un trucco, secondo molte organizzazioni per i diritti umani, che ora permetterà alle autorità israeliane di rimetterlo in libertà: “La detenzione amministrativa è anti-democratica e contro i diritti umani – spiega il portavoce dell’associazione israeliana Yesh Din, Gilad Grossman – Se ci sono le prove che Ettinger è coinvolto nel caso di Douma o in altri atti criminali, le accuse vanno portate di fronte ad un tribunale”. Alla base sta un’indagine, quella sul brutale omicidio della famiglia Dawabsha, poco trasparenti e molto poco approfondite, come avviene nella gran parte dei casi che vedono coinvolti dei coloni israeliani: secondo Yesh Din oltre l’85% dei crimini commessi da israeliani contro palestinesi vengono chiusi subito senza inchiesta e solo l’1,9% delle denunce presentate da palestinesi si conclude con una pena per l’aggressore israeliano.
Il caso della famiglia Dawabsha è emblematico: l’impunità che caratterizza il sistema giudiziario israeliano e la politica del doppio standard (i palestinesi rischiano fino a 20 anni per il lancio di una pietra e sono sottoposti alla legge militare, non civile come i coloni) stridono con il livello inconcepibile di brutalità commessa e per le sue tragiche conseguenze. Tanto terribili da aver scatenato all’epoca lo sdegno internazionale e aver spinto l’Onu ad intervenire con dure dichiarazioni. Ma un anno è ormai trascorso e i Dawabsha sono stati dimenticati.
I colpevoli – dissero all’epoca in molti, compreso Nickolay Mladenov, coordinatore speciale Onu per il Medio Oriente – sono noti alle autorità ma non sono stati realmente perseguiti. Nessuno dei tre arrestati è stato accusato di omicidio, che sia colposo o premeditato, e dopo sei mesi in detenzione amministrativa torneranno liberi. Nessun rinvio a giudizio per mancanza di prove, era stata la giustificazione di Tel Aviv nel dicembre 2015. Negli stessi giorni l’ospedale Tel Hashomer di Tel Aviv, che aveva preso in cura il piccolo Ahmad, sopravvissuto, e sua madre Riham, deceduta, aveva presentato al Ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese un conto di 110mila euro per le cure prestate. Nena News
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