di Michele Giorgio – Il Manifesto
Gerusalemme, 5 gennaio 2016, Nena News – Diventerà un museo la casa della famiglia Dawabsha a Kfar Douma, data alle fiamme da un colono israeliano la scorsa estate, in cui bruciò vivo il piccolo Ali, 18 mesi, e rimasero feriti mortalmente i suoi genitori, Saad e Reham. È questa la risposta che i palestinesi hanno dato all’annuncio giunto ieri, dopo cinque lunghi mesi di indagini condotte con il freno a mano tirato, dell’incriminazione di due coloni israeliani, di 21 e 17 anni, per l’omicidio del bimbo, di suo padre e di sua madre. Altri tre coloni sono stati rinviati a giudizio per “violenze antiarabe”. Nei Territori occupati l’annuncio non ha suscitato particolari reazioni. Nessuno sembra credere che gli incriminati saranno condannati con la stessa severità che Israele di solito riserva ai palestinesi accusati degli stessi reati.
«Non ho fiducia nella giustizia di Israele, la verità è che gli assassini di mio nipote meritano la stessa morte», ha commentato Hussein Dawabsha, il nonno di Ali esprimendo un profondo scetticismo verso l’esito del processo. Uno zio del bimbo, Nasser, ha spiegato che il museo Dawabsha «sarà un sito dedicato alle vittime palestinesi della violenza dei coloni israeliani e ai crimini dell’occupazione. Chiunque in Palestina o da altre parti del mondo potrà visitare la casa bruciata dai coloni». L’Anp di Abu Mazen si dice pronta ad investire un milione di dollari nel museo.
Il principale incriminato è Amiram Ben Uliel, 21 anni, residente nella colonia ebraica di Shilo. Suo complice è un 17enne. Farebbero parte di una “organizzazione terroristica”, ispirata da una ideologia “razzista ed eversiva” e guidata dai “teorici” Meir Ettinger e Moshe Orbach ai quali la scorsa estate sono stati imposti gli arresti preventivi. La destra radicale accusa gli investigatori di aver abusato dei sospettati per estorcere le confessioni, ma è stato lo stesso Ben Uliel che ha ricostruito la dinamica dell’attentato, fornendo nuovi importanti particolari.
I due coloni scelsero Kfar Douma per vendicare l’uccisione di un israeliano. Ben Uliel — figlio di un rabbino molto popolare tra i coloni — preparò due bottiglie incendiarie e si procurò una bomboletta spray di vernice necessaria per tracciare slogan sui muri della casa. All’appuntamento notturno fissato nell’avamposto colonico di Yishuv ha-Daat, il complice però non si presentò. Ben Uliel non rinunciò ai suoi propositi. Andò ugualmente a Kfar Douma. Appiccò il fuoco prima a una casa vuota e poi a quella dei Dawabsha, lanciando una bottiglia molotov attraverso una finestra della stanza da letto. Per i giovani coniugi e Ali quelle fiamme significarono la morte: subito per il bimbo e nelle settimane successive per i genitori, portati all’ospedale con ustioni su il 90% del corpo. Alla morte è scampato solo Ahmad, il fratellino di Ali, che porterà sul suo corpo i segni di ustioni gravissime per tutta la vita.
Questa versione israeliana desta non pochi dubbi perchè all’epoca alcuni testimoni oculari dissero di aver visto almeno due attentatori col volto coperto scappare da Kfar Douma, dopo aver scagliato le bottiglie incendiarie. Inoltre è poco credibile che Ben Uliel si sia spinto da solo fino al villaggio palestinese, senza l’appoggio di complici. Questo tipo di raid di solito sono compiuti da più coloni, come due giorni fa a Beit Furik (Nablus) dove una casa palestinese è stata attaccata con la stessa dinamica di Kfar Douma da quattro israeliani, armati di bottiglie incendiarie, che però sono stati messi un fuga dagli abitanti.
Per il premier israeliano Netanyahu l’incriminazione degli assassini di Ali Dawabsha sarebbe la prova della imparzialità, di fronte ad atti di violenza, del sistema legale israeliano. Le cose però non sono così lineari. Per un reato analogo commesso in Cisgiordania un palestinese viene giudicato dalle corti militari mentre un colono ebreo, che vive (insediato) nello stesso punto, affronta un processo in un tribunale civile, decisamente più garantista. Inoltre mentre a un “terrorista palestinese” viene anche demolita la casa di famiglia, nessun dirigente israeliano ha mai proposto una simile punizione aggiuntiva per un “terrorista ebreo”. Gli avvocati di Ben Uliel intanto anticipano che ingaggeranno battaglia perchè, dicono, le confessioni sarebbero state estorte con «metodi crudeli» che «ricordano quelli dell’Inquisizione spagnola». Metodi che, ribattono i palestinesi, sono abitualmente usati e in forma sicuramente più dura quando gli arrestati sono arabi. Nena News