Caduto il capoluogo di Anbar, a soli 100 km dalla capitale, ora le autorità irachene vogliono l’aiuto delle milizie sciite che avevano lasciato nelle retrovie per non scontentare Usa e tribù locali. Washington non interviene, nonostante 500 morti nei combattimenti e 8 mila civili in fuga, preferendo riconquistare una raffineria nell’est della Siria con truppe a terra. E Palmira, liberata dall’esercito siriano, per ora è salva
della redazione
Roma, 18 maggio 2015, Nena News – Ora Baghdad si è accorta di aver bisogno delle milizie sciite che sono state decisive per la riconquista di Tikrit. Ora, dopo giorni di combattimenti con l’Isis che aveva occupato il capoluogo della provincia di Anbar, una delle poche aree a nord della capitale ancora controllate dall’esercito iracheno, strappandola al fronte governativo perché Baghdad aveva messo a riposo le Unità di Mobilitazione Popolare (Hashed al-Shaabi), un contingente-ombrello di milizie e combattenti volontari coordinate e addestrate da Teheran, mandando solo le milizie tribali locali a supporto del disorganizzato esercito iracheno.
Venerdì lo Stato islamico aveva piantato la sua bandiera nera sul palazzo del governo di Ramadi. Sabato erano in corso scontri tra i miliziani dell’Isis e i soldati di Baghdad, e fonti militari dichiaravano la città presa al 90 percento. Oggi il fronte governativo (soldati, milizie sciite e sunnite) è in ritirata, con i militari delle forze speciali che, secondo i dispacci in provenienza dalla base dell’esercito in città, stanno fuggendo. Il primo ministro iracheno, Haider al-Abadi, gli Stati Uniti e la leadership della provincia sunnita di Anbar erano stati riluttanti a schierare gruppi sostenuti dall’Iran a Ramadi, ma ora si rende necessario: lo ha annunciato anche un portavoce di Ketaeb Hezbollah, uno dei principali gruppi paramilitari sciiti in Iraq, dicendo che la sua organizzazione è pronta a unirsi ai combattimenti di Ramadi “arrivando da tre direzioni”.
La perdita di Ramadi non è solo attribuibile a Baghdad, però. La messa in ombra di Teheran, che aveva guidato con successo le operazioni militari, non può essere vista come una mera questione bilaterale con le autorità irachene: dietro sta il peso che i successi militari di Teheran potrebbero avere nella regione, tra le isterie degli alleati statunitensi in Medio Oriente (Israele e Golfo) e i malumori del Congresso Usa, fortemente anti-iraniano e paranoico proprio nel momento in cui l’amministrazione Obama sta per siglare l’accordo sul nucleare con la Repubblica islamica.
I giochi comunitari, poi, potrebbero aver fatto il resto: già nella battaglia per la riconquista di Tikrit gli Usa avevano negato il loro sostegno per la forte componente sciita presente tra le milizie, la quale “avrebbe potuto provocare scontri tra fazioni”. Nella battaglia in corso a Ramadi, quindi, la presenza sciita è stata rilegata alle retrovie su richiesta delle tribù sunnite locali. Ma ora, secondo quanto riporta Zeina Khodr per al-Jazeera, Baghdad scalpita per mandare milizie sciite a rinforzo dell’esercito: “Ci sono molte tribù influenti in Anbar – spiega Khodr – che hanno messo in guardia il governo contro questa decisione già da qualche tempo”. Del resto, a far capire come stanno le cose, sono le parole di Sheikh Ali al-Hatim, figura di spicco dell’universo tribale locale: “Il coinvolgimento delle milizie sciite è occupazione iraniana”.
Resta da capire perché, ancora una volta, è mancato il sostegno Usa. Nelle stesse ore, infatti, un raid delle forze speciali statunitensi nella zona di Deir al-Zor uccideva 32 membri dello Stato islamico, tra cui il responsabile del petrolio Abu Sayyaf, il “vice ministro della Difesa e un funzionario della comunicazione”, come riporta l’Osservatorio siriano per i Diritti Umani. Si tratta del primo raid Usa contro l’Isis in Siria, ovviamente non concordato con Assad, ma si tratta soprattutto della prima incursione a terra di Washington nei territori conquistati dallo Stato islamico. Forse l’inedita operazione statunitense è stata dettata dal luogo: la raffineria di al-Omar, una delle più grandi del governatorato di Deir al-Zor, che ha richiesto combattimenti “corpo a corpo” tra gli uomini dell’unità Delta scesi a terra con elicotteri Black-Hawk per l’uccisione mirata di Abu Sayyaf.
Sembra invece salva, per ora, Palmira, il sito archeologico più famoso della Siria che era stato circondato venerdì scorso dall’Isis. L’esercito siriano avrebbe infatti respinto i miliziani jihadisti dalla cittadina di Tadmur, a due chilometri dal sito Unesco, in un’aspra battaglia in cui hanno perso la vita centinaia di persone. Secondo l’Osservatorio per i Diritti Umani, le perdite dell’esercito siriano supererebbero quelle dell’Isis: 132 soldati uccisi contro 115 miliziani, oltre a circa 60 civili. Ma per Palmira, cui si temeva una sorte simile a quella dei siti iracheni di Hatra e Nimrod, è un sospiro di sollievo momentaneo: lo Stato islamico preme da tempo da nord-est sulla città, importante snodo nel deserto a 200 km dalla capitale Damasco. Nena News
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