I gruppi che manu militari gestiscono il paese crollano nei consensi. Non fanno autocritica sulla repressione delle proteste, ma accusano il vincitore relativo, al-Sadr, di complotto. E l’ex premier al Maliki porta i capi miliziani a casa sua per decidere le prossime mosse
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 14 ottobre 2021, Nena News – Il 10 giugno 2018, un mese dopo le parlamentari, scoppiò un incendio in un deposito nella zona est di Baghdad: dentro c’erano le schede elettorali del distretto di al-Rusafa. Dovevano essere ricontate, insieme ad altre 10 milioni di schede, a seguito di denunce di brogli.
Forse è per evitare «incidenti» simili che ieri il premier iracheno al-Kadhimi ha personalmente supervisionato la consegna delle urne alla Commissione elettorale. Dopotutto le accuse di brogli sono già state sollevate. Non da attivisti del movimento popolare, nato a ottobre 2019. Ma da chi finora ha gestito manu militari il paese: le milizie sciite filo-iraniane. A 48 ore dalle legislative, risultati definitivi non ci sono ancora. Se attese erano sia la bassa affluenza (record negativo, 41%, il boicottaggio politico del movimento popolare ha funzionato) sia la vittoria relativa del movimento sadrista, qualche sorpresa il voto l’ha regalata.
La prima è la presenza mai così alta di donne in parlamento: 97 seggi su 329, 14 in più del 25% previsto per legge. Non che ciò significhi un cambio di paradigma strutturale nella partecipazione femminile, ma qualcosa si muove. La seconda «novità», che non preannuncia nulla di buono, è proprio la reazione delle milizie sciite, riunite politicamente sotto l’ombrello della coalizione Fatah.
Secondo i risultati preliminari, hanno subito un tracollo: appena 14 seggi, contro i 48 di tre anni fa. Parlano di «imbroglio», di risultati «fabbricati»: «Costi quel che costi, difenderemo i voti dei nostri candidati ed elettori con piena forza», ha scritto in una nota Hadi al-Ameri, leader di Fatah ma soprattutto dell’Organizzazione Badr e del suo braccio armato, il più potente capo miliziano sciita del paese, tanto da presenziare a più di un incontro con l’ex presidente Trump e, ancora prima, con Obama.
Insomma, uno che se minaccia fa paura. Come paura fanno le Kataib Hezbollah irachene, quelle il cui leader Abu Mahdi al-Muhandis fu fatto saltare in aria da un drone americano il 3 gennaio 2020, insieme al potentissimo generale iraniano Suleimani. Ieri un portavoce del gruppo ha invitato i sostenitori a opporsi ai risultati e a «insistere per riportare le cose al posto giusto», mentre a Baghdad atterrava Esmail Qaani, successore di Suleimani a capo dell’élite dei pasdaran iraniani, le forze al Quds.
Nessuna autocritica per il ruolo avuto a partire da ottobre 2019 nella brutale repressione del movimento popolare e l’uccisione di oltre 600 manifestanti in pochi mesi. Il vincitore (seppur privo di una maggioranza assoluta e anche lui responsabile di infiltrazioni delle piazze per fermare le proteste) sarebbe il religioso sciita Moqtada al-Sadr, con 73 seggi. A seguire, con 38, c’è il sunnita Taqaddoum, guidato dallo speaker del parlamento Mohamed al-Halbousi.
Terzo posto per State of Law dell’ex premier al-Maliki che con 37 seggi sorride, lui che è stato tra i leader più odiati con il suo bagaglio di feroce repressione della comunità sunnita e di scomparsa di miliardi di dollari destinati alla ricostruzione post-invasione Usa. Proprio al-Maliki lunedì sera ha ospitato a casa sua i leader delle milizie sciite per valutare come rispondere al «golpe» di al-Sadr e al «complotto britannico-americano». Secondo una fonte sentita da Mee, l’idea è scaldare il clima (con le armi) così che al-Sadr e Kadhimi capiscano il messaggio.
Nessuno invece pare aver colto il vero messaggio lanciato domenica dagli astenuti: il rigetto di un sistema politico che non prende in considerazione le miserevoli condizioni del popolo iracheno.