25 milioni di iracheni costretti a scegliere tra partiti ancora divisi secondo faglie etnico-religiose. Unica certezza l’astensione, figlia della rabbia esplosa nella rivoluzione di piazza Tahrir. Il movimento diviso tra candidature e rifiuto delle urne: chiedeva democrazia, non elezioni
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 9 ottobre 2021, Nena News – Con un anno di anticipo sui tempi, domani l’Iraq va alle urne. A decidere di spostare la consultazione era stato il governo su spinta della piazza: la mobilitazione popolare iniziata nell’ottobre 2019 – per questo battezzata con ottimismo progressista Rivoluzione d’Ottobre – aveva messo in crisi un sistema politico arroccato da due decenni su un settarismo «alla libanese» e responsabile di una brutale crisi economica e sociale.
Si va a votare prima perché i manifestanti volevano un cambio di paradigma. Eppure tantissimi dei milioni di iracheni che hanno occupato per mesi le piazze di Baghdad e del sud sciita a votare non andranno. Chiedevano democrazia, non elezioni.
Quello del boicottaggio politico è solo uno degli aspetti che puntellano il voto iracheno. Le incognite sono tante, a partire dall’effetto della pandemia di Covid-19. Il virus ha solo esposto una realtà che gli iracheni conoscevano benissimo: la carenza strutturale di servizi pubblici e la diseguaglianza sociale. I due incendi che quest’anno hanno devastato due ospedali (lo scorso aprile l’Ibn Khatib a Baghdad, 89 morti; il secondo a luglio a Nassiriya, almeno 92 vittime) non sono stati che l’epilogo di una disastrosa gestione dell’epidemia: dei fasti sanitari del passato non restano che briciole, tanto da portare all’esasperazione i pochi medici rimasti nel paese, autori di proteste veementi per l’assenza di strumentazioni, protezioni individuali, medicinali e respiratori.
Nelle urne non potrà che finire anche la crisi economica. A una disoccupazione già alta, soprattutto tra i giovani (al 40%, loro che sono la maggioranza degli iracheni), si è aggiunto un rapido scivolamento sotto la soglia della povertà di milioni di persone, impiegate nel settore informale, a giornata, private del lavoro dalle restrizioni anti-Covid: l’Onu calcola che un terzo degli iracheni vive oggi in povertà (93 dollari al mese), erano il 20% nel 2018.
Una realtà ormai consolidata in un paese senza economia di produzione, che vive quasi esclusivamente di gas e petrolio ma che comunque non riesce a garantire energia elettrica: il governo la acquista dal vicino Iran, con le zone più ricche di giacimenti come Bassora che sopravvivono tra costosi generatori, blackout e acqua inquinata perché non depurata.
L’altra incognita è il tipo di partecipazione delle regioni sunnite. Quasi assenti dalla mobilitazione popolare più per paura della repressione (come quella degli anni successivi alla caduta di Saddam Hussein, e poi di nuovo nel 2011) che per mancata aderenza alle aspirazioni della piazza, i sunniti sono alle prese con una ricostruzione fantasma. A Mosul, a Falluja, a Ramadi. Una mancata ripartenza dopo l’occupazione del’Isis che rende il loro voto un punto interrogativo: boicotteranno contro la marginalizzazione o si affideranno al rassicurante voto di appartenenza religiosa?
Una domanda che cerca risposta anche nelle aree sciite e curde: ovunque la mobilitazione elettorale appare legata all’etnia, alla tribù o alla religione e alla capacità di chiamata alle urne dei leader più influenti. Non tanto per ragioni di identificazione settaria, quanto di speranza in qualche briciola caduta dal tavolo dei potenti, con il voto merce di scambio con una possibilità di emersione dalla miseria.
Non a caso chi dibatte di Iraq alla vigilia del voto lo fa per «blocchi» etnico-religiosi (eccezion fatta per il Partito comunista, che non si presenta): ci sono i partiti sciiti, i sunniti e i curdi. Questo si troveranno di fronte i 25 milioni di aventi diritto al voto quando dovranno scegliere 329 parlamentari da una rosa di oltre 3.200 candidati (il 30% donne, un piccolo record).
Tra i partiti sciiti la parte del leone la faranno tre storici rivali: il (favoritissimo) movimento del leader religioso Moqtada al-Sadr; la State of Law Coalition dell’odiato ex premier Al-Maliki; e Fatah, la rete delle milizie sciite (le Pmu, le unità di mobilitazione popolare) accusate dai manifestanti di essere – con l’esercito – responsabili delle stragi in piazza (oltre 600 morti e uno stillicidio di attivisti che continua).
I curdi correranno con i soliti due pesi massimi, il Kdp dei Barzani e il Puk dei Talabani, anche loro investiti negli ultimi anni da proteste sempre più frequenti, accusati di corruzione e repressione strutturale. Tra i sunniti, prevalgono gli «uomini forti» a metà tra politica e business: l’imprenditore al-Khanjar e lo speaker del parlamento al-Halboulsi.
Impossibile immaginare un vincitore chiaro: lo spettro delle consultazioni infinite, come quelle seguite all’ultima tornata elettorale, è una delle poche certezze insieme all’astensione. Ma in lista ci sarà anche una porzione di attivisti, politicamente cresciuti a piazza Tahrir. Il movimento si è spaccato, tra boicottaggio e tentativo di cambiare il sistema dall’interno. Per loro, al momento, la preoccupazione maggiore sembra essere la sopravvivenza: tante le denunce di candidati minacciati o aggrediti per essersi messi in lista.