Un resoconto da Baghdad nel primo anniversario della “rivoluzione d’ottobre” irachena, tra gli attivisti e le attiviste che in 12 mesi hanno autogestito le piazze e per la prima volta messo in discussione il potere dello Stato e delle milizie
di Schluwa Sama – Fondazione Rosa Luxemburg – Traduzione di Emiliano Zanelli
Roma, 20 ottobre 2020, Nena News -
Un anno dopo l’inizio della rivoluzione
Attivist* e manifestant* si sono di nuovo riuniti nel centro di Baghdad, un anno dopo l’inizio della rivoluzione irachena, a piazza Tahrir. Molti di loro indossano magliette nere: “Portiamo il nero per ricordare i nostri martiri e gli amici che sono caduti”, spiega uno dei giovani.
Ma si respira anche un’atmosfera rivoluzionaria, quando nel mattino del 1° ottobre durante una importante manifestazione nella piazza viene organizzata una sfilata di tuk-tuk, mezzo di trasporto divenuto simbolo della classe degli oppressi e della rivoluzione. Non sembra essere solo un giorno del ricordo, ma anche un giorno di lutto, di orgoglio e in cui si chiede un rinnovamento del processo rivoluzionario.
Esattamente un anno fa cominciò la rivoluzione irachena, che venne rapidamente nominata “rivoluzione d’ottobre”. Si è contraddistinta per l’incredibile entità dell’autorganizzazione, della capacità di resistenza e dell’ardore che i giovani hanno messo nel tentativo di raggiungere gli obiettivi della rivoluzione. L’obiettivo principale consisteva nell’abbattimento completo del sistema politico sorto dopo il 2003, e del suo apparato di potere settario e corrotto.
Piazza Tahrir, a Baghdad, è stata uno dei principali luoghi di questa protesta – e fino ad oggi è stata mantenuta occupata. Poco meno di un anno fa, artisti rivoluzionari realizzavano grandi graffiti sulle pareti del tunnel di piazza Tahrir, per esaltare il ruolo delle donne e dei conducenti di tuk-tuk. Oggi sulle pareti vengono dipinti i ritratti di molti martiri. Ai martiri sono state intitolate anche molte delle tende che nel corso dell’ultimo anno sono state utilizzate da diversi gruppi di manifestanti.
I martiri
Una tenda si chiama oggi “tenda del martire Abu Ahmed Al-Timimi”. Abu Ahmed era uno scultore, ed espose le sue sculture in piazza Tahrir come contributo alla cultura della rivoluzione. Abu Ahmed è stato ucciso dalle unità antisommossa della polizia.
Tra i martiri figurano molti giovani uomini, come ad esempio Saffa Al-Saray, il cui volto oggi è diventato l’emblema di tutti i martiri della rivoluzione. Era uno degli attivisti più noti, che l’anno scorso durante le proteste è stato ucciso dal lancio di un candelotto di gas lacrimogeno. Ma insieme a loro sono state uccise anche giovani donne, e gli attivisti e le attiviste sono stati oggetto di numerosi rapimenti e attacchi mirati.
Oggi li ricorda la marcia delle donne, da piazza Kahraman a piazza Tahrir. In questa iniziativa di protesta, che è stata autorizzata dallo Stato, vengono commemorate diverse attiviste, come ad esempio Sara Talib, di Bassora: è stata una delle prime donne a prestare soccorso medico alla prima linea dei manifestanti.
Le forze di sicurezza statali, che si muovono a piedi accanto alla manifestazione, agiscono in modo pacifico. Un uomo della sicurezza ha con sé una fotocamera, e fotografa le forze di sicurezza e i manifestanti. Tra le attiviste della marcia delle donne, Zahra (nome cambiato) spiega che questa è solo una parte della nuova tattica con cui stanno lavorando alla loro immagine pubblica. In questo modo vorrebbero apparire vicini al popolo: “Come dovremmo accettarlo, dopo tutte le morti di cui sono stati responsabili?”.
Nei fatti, più di 600 manifestanti, uomini e donne, sono stati uccisi, e migliaia feriti. Molti attivisti sono fuggiti dal paese a causa delle minacce, oppure non vengono in piazza Tahrir, come racconta Samia, attivista per i diritti delle donne – che intanto, mentre camminiamo attraverso la piazza, saluta senza interruzione altri attivisti e attiviste.
Nonostante tutte le perdite subite, Ahmed, un conducente di tuk-tuk, è contento che verso mezzogiorno la piazza si riempia, e che ci siano molte piccole marce e proteste: “ È una cosa che mi dà speranza”.
È seduto con un amico nel suo tuk-tuk, sul ponte Jumhuriya, che intanto si è riempito di manifestanti. Sulla sua maglietta si vedono i nomi e i volti dei suoi amici che sono caduti, raffigurati mentre sventolano una bandiera irachena a cui è stata aggiunta la scritta: “La Baghdad rivoluzionaria – il gruppo dei difensori di Tahrir”. In più, rivolti alle unità antisommossa del governo, scandiscono: “Potete provare a fare tutto quello che vi riesce, ma il popolo è ancora e sempre forte”.
L’orgoglio e la speranza in un futuro rivoluzionario
Il primo ottobre in piazza Tahrir, accanto alla speranza e al lutto c’è anche un enorme orgoglio. Ahmed, il conducente di tuk-tuk che un anno fa ci aveva raccontato della solidarietà tra i manifestanti, spiega che nonostante tutto chi è sceso in piazza ha dimostrato di essere in grado di cambiare le cose: “Abbiamo costretto alle dimissioni il primo ministro Adil Abdul-Mahdi. Certo, le sue dimissioni non erano l’obiettivo principale delle proteste, ma ci ha mostrato che abbiamo il potere necessario a operare un cambiamento”.
Queste dimissioni hanno avuto come effetto che al momento c’è un primo ministro temporaneo, Mustafa Al-Kadhimi, e che per il 2021 sono state indette nuove elezioni. Ma tra i frutti della rivoluzione non c’è solo il fatto che la classe dirigente del paese è stata costretta a tenere conto delle proteste: c’è anche un sentimento di libertà.
Samia (nome cambiato), attivista per i diritti delle donne, spiega come le precedenti ondate di protesta siano sempre state proteste condotte da uomini ed estremamente rispettose nei confronti delle autorità religiose e politiche. La rivoluzione d’ottobre ha cambiato tutto: in questa rivoluzione le donne irachene sono state presenti allo stesso modo degli uomini, e l’aura religiosa che circonda le autorità ha potuto essere rotta.
In modo simile, Qasim (nome cambiato), che lavora a giornata nel settore edile, spiega che ora l’incantesimo che circondava le autorità religiose e i leader politici è scomparso. Certo, precisa che comunque il movimento dei sadristi oggi controlla diversi ingressi a piazza Tahrir, e pure il “Ristorante turco”. Però, dice: “Chi avrebbe osato, prima della rivoluzione, prendere in giro al-Sadr [autorità politico-religiosa e guida della milizia Saray al-Salam]? Oggi abbiamo gridato decine di slogan politici in cui mostriamo che non ci facciamo più impressionare dalla sua ideologia”.
Benché la sua situazione economia non sia migliorata, Qasim descrive un nuovo sentimento di libertà che non è limitato a piazza Tahrir: “Prima prendevo una certa via per uscire dal mio quartiere, e un’altra per entrare. Oggi entro ed esco normalmente. Alcune persone del mio quartiere, che appartengono alle milizie, oggi mi guardano in modo diverso: perché sanno che il loro potere vacilla. Anche se la situazione economica non è migliorata, ho speranza in questa rivoluzione, perché non ho più paura”.
Scrivere da soli la propria storia
Oggi in Iraq il primo ottobre è tanto un giorno del ricordo quanto un giorno di lotta. Le marce e i presidi di oggi non si limitano a ricordare ciò che i manifestanti hanno cominciato, ma lo portano anche avanti. In una storia piena di guerra, di morte e di dolore, le donne e gli uomini dell’Iraq stanno creando una storia del popolo, dal basso, di cui possono essere fieri. La rivoluzione, però, non è ancora parte di una storia compiuta. Lo spiega Samia: “Quello che abbiamo cominciato qui sarà un lungo processo. Lo facciamo per i nostri bambini, e speriamo che loro potranno vivere una vita degna”.
Qasim si aspetta che la storia della rivoluzione continui a essere scritta già questo 25 ottobre, il giorno in cui, un anno fa, le proteste si rovesciarono in un’insurrezione che coinvolse l’intero paese e molti strati sociali. Per lui è un giorno di liberazione: “Vogliamo che la gente venga a Tahrir. È il nostro paese, e che la rivoluzione sia vittoriosa è una nostra responsabilità”.
Essere vittoriosa significa, qui, non solo nuove elezioni, ma che si ritorni alla rivendicazione principale di quella sollevazione: l’abbattimento del sistema.