REPORTAGE. Quando si parla di “rotta balcanica” si pensa immediatamente ai migranti bloccati al confine tra Croazia e Bosnia-Erzegovina. Ma c’è un altro confine di cui si parla ancora troppo poco: quello tra Croazia e Serbia in cui l’umanità sembra essersi fermata
di Marco Siragusa
Roma, 10 febbraio 2020, Nena News – Guardando una cartina dell’Unione Europea ci si rende conto dell’esistenza di un buco nella zona Sud-Orientale, proprio a fianco all’Italia. Un’area non proprio piccola, circa 18 milioni di abitanti, che non rientra nei confini politici dell’Unione sebbene si trovi da essa circondata. Quest’area corrisponde a quelli che sono stati definiti Balcani Occidentali: Serbia, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Albania. Se un cittadino europeo volesse attraversare uno dei confini che divide l’Europa dalla “quasi Europa” avrebbe bisogno di un semplice documento di identità. Se poi fosse in possesso di un documento “forte”, come per esempio quello italiano, i controlli alle frontiere sarebbero poco più che una formalità, una perdita di tempo pari ad un caffè al bar.
L’unico vero problema che dovrebbe affrontare sarebbe quello della scarsa qualità delle autostrade. Mettiamo che, per esempio, il nostro europeo si trovi a Belgrado e da qui volesse raggiungere Zagabria. Per fare i 400 km che dividono le due capitali impiegherebbe pressappoco 4 ore. Lungo il viaggio incontrerebbe un paesaggio per lo più pianeggiante, fatto di vigneti, campi coltivati a grano e piccoli boschi. Nei mesi invernali le temperature si aggirano intorno allo zero e i cartelli posti lungo l’autostrada segnalano la possibilità di neve e asfalto congelato. Dopo circa un’oretta di viaggio, poco prima dell’uscita per Adaševci, a pochi passi dall’Europa e in una strada che collega due capitali sempre più internazionali, la monotonia paesaggistica viene interrotta da una macchia, qualcosa che somiglia ad una vecchia stazione di servizio ormai in disuso con tanto di ristorante e una piccola pensione dove riposare. Purtroppo però non si tratta di un autogrill ma di un campo per migranti che, secondo i dati forniti dalla ONG “Are you Sirious?”, nel 2017 è arrivato a contare oltre mille persone.
Ad oggi le persone presenti, sostenute dall’UNHCR e dalla locale Croce Rossa, sono poche centinaia ma il loro numero varia abbastanza velocemente tra nuovi arrivi e coloro che provano ad attraversa il confine. Continuando sull’autostrada è infatti facile notare ragazzi, da soli o in coppia, incamminarsi verso la frontiera con appena un sacchetto di plastica con sé. Più il confine si avvicina più si fa lunga la fila dei camion in attesa di passare i controlli. Per molti ragazzi quei camion rappresentano una possibilità, un lasciapassare verso l’Europa. Molto più spesso, però, la speranza si trasforma in un vero e proprio inferno. C’è chi si nasconde sotto i camion, chi prova ad entrarci dentro, chi ancora prova a salire sul tetto. I pochi che hanno ancora qualche soldo sperano di corrompere un poliziotto ma per la maggior parte di loro il confine rappresenta una lotteria. I controlli sono infatti serratissimi. Un poliziotto si abbassa per vedere se c’è qualcuno nascosto sotto il camion, un altro con una sorta di scanner sale su una piattaforma rialzata per controllare il tetto. Un altro ancora controlla dentro. Chi non prova con la “tattica del camion”, ormai nota, si perde nei boschi che fungono da confine naturale o nel Danubio che separa l’Europa da quel buco nero non ancora europeo.
Il campo di Adaševci, situato lungo un’autostrada e sotto gli occhi di tutti, sembra quasi rappresentare una cartolina vivente con un messaggio: “Qui finisce l’inciviltà. A breve entrerete in Europa, patria dei diritti”. Peccato però che, nonostante i confini artificiali, i Balcani siano a tutti gli effetti parte integrante dell’Europa e che quello che accade pochi metri oltre i confini sia la conseguenza di politiche di chiusure delle frontiere volute dagli stati membri.
Adaševci non è infatti l’unico campo della zona. Pochi chilometri verso nord, precisamente nella zona di Šid e a 5 km dalla Croazia, esiste un accampamento informale nato nell’area della fabbrica abbandonata Grafosrem in cui opera la ONG “No Name Kitchen” nota per la sua attività di distribuzione pasti. Lo scorso 1° febbraio i volontari di NNK sono stati aggrediti per aver tentato di difendere i migranti dall’attacco violento da parte di alcuni addetti alla pulizia dell’area. Secondo quanto raccontato da Adalberto Parenti, attivista bolognese della ONG, lo scorso sabato un gruppo di uomini con le divise militari e simboli cetnici (movimento ultranazionalista serbo della seconda guerra mondiale) ha tentato di dare fuoco con la benzina ad alcune tende e ad una volontaria dell’associazione mentre ad un’altra è stato distrutto il telefono. Paradossalmente la polizia non è intervenuta per bloccare gli aggressori ma per portare in commissariato i tre volontari. Alla fine della giornata e dopo un processo per direttissima, a due di loro è stata inflitta una condanna a 20 giorni di reclusione, tramutata poi in una multa di circa 180 euro, e consegnato il foglio di via che impone loro di lasciare il paese entro 7 giorni.
Questo episodio, non certo il primo, dimostra come i migranti lungo la rotta balcanica debbano subire violenze sia da gruppi della destra ultranazionalista che dalle autorità. Preoccupante soprattutto quanto deciso dal giudice con l’allontanamento dei volontari. Una decisione che sembra voler impedire qualsiasi azione di sostegno e tutela verso i migranti, limitando così il ruolo fondamentale delle ONG che permettono di rendere meno infernale il viaggio verso l’Europa. Come riportato dall’UNHCR, il 15 dicembre un giovane palestinese alloggiato nel centro di Šid è morto fulminato dalle linee elettriche ad alta tensione mentre tentava di salire su un treno. Pochi giorni dopo, il 23 dicembre, una famiglia siriana e una irachena sono scomparse mentre provavano ad attraversare il Danubio. In totale, ad oggi, si contano oltre 20 morti nel tentativo di attraversare il confine serbo.
Nel frattempo, venerdì 7 febbraio centinaia di migranti si sono riversati al valico di frontiera di Kelebija al confine tra Ungheria e Serbia dove già da anni è stato costruito un muro per impedire il passaggio. I migranti sono poi stati nuovamente trasferiti nei centri di accoglienza con diversi autobus messi a disposizione dalle autorità serbe. Secondo il rapporto di dicembre dell’UNHCR gli arrivi totali nel 2019 in Serbia sono stati 30.216, quasi il doppio dei 16.165 del 2018. Nel paese sono presenti ben 17 centri governativi con una capienza di 5.200 persone.
Così, il nostro europeo in possesso di regolare documento di identità continua il suo viaggio verso l’Europa lasciandosi alle spalle violenze, soprusi, morte e disperazione. Ma si sa, i Balcani Occidentali non fanno ancora parte del mondo civilizzato perché, utilizzando le parole di un grande storico dell’area come Egidio Ivetić, non sono più Occidente, non sono ancora pienamente Oriente. Di certo un meridione, ma in gran parte a sé rispetto al Mediterraneo≫ (Ivetić, 2015). Eppure, quello che li accomuna al Mediterraneo è lo stesso destino offerto a chi prova a raggiungere l’Occidente tanto sognato. Nena News