Unica donna di Gaza a svolgere questo lavoro, la giovane pesca da quando era una ragazzina. Il fratello Kayed fu ucciso l’anno scorso dai soldati israeliani mentre manifestava alla “Grande Marcia del ritorno”
di Maria Rosaria Greco – curatrice di Femminile Palestinese
Gaza, 12 settembre 2019, Nena News – “Mi chiamo Madlleen Kulab, ho 25 anni, sono sposata da un anno e tre mesi, faccio la pescatrice, ma per il momento sono ferma perché sono incinta.” Inizia così la nostra intervista a Madleen, la donna pescatrice di Gaza che ci racconta la sua storia, mentre ci guarda con lo sguardo fermo e tenace, occhi neri, risposte secche senza incertezze. Siamo a casa sua, fra mura di colore rosa dall’intonaco scrostrato, una casa poverissima dove però l’accoglienza è sacra, come in tutte le case palestinesi.
“Avevo 13 anni quando ho incominciato questo lavoro, il mare da sempre fa parte della mia vita. Mio padre mi portava con lui a pescare fin da piccola, mi piaceva e poi ho iniziato ad aiutarlo, fino al momento in cui lui si è ammalato. Così ho preso il suo posto sul peschereccio, io ero la più grande dei miei fratelli, potevo farlo solo io.” Di lei hanno parlato in molti, per l’audacia di una scelta difficile. Scriveva di lei nel 2010 Vittorio Arrigoni, quando Madleen aveva 16 anni. “Ogni mattina verso le 6, un’ora prima di recarsi a scuola, spinge a remi di poco al largo la sua minuscola imbarcazione e lancia le reti. Un rituale che si ripete quotidianamente anche al pomeriggio, poco dopo la fine delle lezioni.”
Ispirato alla storia di Madleen, nel 2013, esce il libro per ragazzi della scrittrice giordana Taghreed al Najjar “Sitt al-Koll”, pubblicato dalla casa editrice Salwa e illustrato dalla disegnatrice siriana Gulnar Hajo. Il racconto della giovane protagonista Yousra, che diventa la prima donna pescatrice di Gaza sfidando ogni convenzione, viene tradotto in italiano da Leila Mattar e nel 2018 l’editore Giunti pubblica Contro corrente. Storia di una ragazza “che vale 100 figli maschi”.
Nel 2017 invece esce il video prodotto da Al Jazeera: “Fish out of water: Gaza’s first fisherwoman l Al Jazeera World” in cui Madleen racconta la sua storia. Insieme a lei vengono intervistati il padre, la madre e gli amici pescatori.
Oggi il suo nome è conosciuto anche fuori dalla striscia di Gaza, ma, soprattutto all’inizio, non è stato facile per lei. “Ovviamente la mia è stata una scelta difficile, questo lavoro è difficile, e anche molto pericoloso. All’inizio ho dovuto dimostrare di essere all’altezza per guadagnarmi il rispetto degli altri, soprattutto di chi non mi conosceva fin da piccola. Parlo dei pescatori più giovani e della polizia che non accettavano che una donna potesse fare questo lavoro.”
La comunità dei pescatori a Gaza è tradizionalmente maschile e qui sfidare alcune convenzioni culturali non è facile, a partire dall’abbigliamento che le donne devono indossare. Madleen, durante la pesca porta sempre il velo e i vestiti ingombranti che vanno tenuti anche per nuotare, quando si immerge nell’acqua, per esempio, per controllare le reti e l’eventuale pescato. “Nonostante la scomodità dei vestiti, l’acqua è il mio elemento naturale, quando sono nel mare riesco a sentirmi completamente libera. Ma è anche il momento in cui ho paura. I pescatori fanno un lavoro molto duro e pericoloso, non solo per i ritmi faticosi scanditi dal mare. Quello di cui ho paura, e che incombe su tutti i pescatori di Gaza, è la violenta e sistematica oppressione israeliana, che impone l’assedio sulle nostre vite e sul nostro mare.”
I pescatori possono gettare le reti solo in un’area compresa tra le 3 e le 6 miglia nautiche quando l’area di pesca stabilita dagli accordi di Oslo era stata fissata a 20 miglia. Prima dell’embargo, qui a Gaza, la pesca era una delle principali attività, ma nei lunghissimi anni di assedio proprio la comunità dei pescatori è diventata fra le più povere. I circa 4000 pescatori che oggi rimangono attivi per lo più vivono sotto la soglia della povertà. I pesci migliori si trovano intorno alle 12 miglia, vicino alla costa si pesca poco, pochi chili e per lo più sardine, gamberetti, triglie e granchi. Tra l’altro viene anche negata a tutta la popolazione una importante fonte di alimenti.
“Appena un nostro peschereccio prova ad avvicinarsi alle 5 miglia marine le motovedette militari israeliane piombano e iniziano a sparare, sequestrano la barca e le reti. Oppure lanciano getti di acqua bollente che ustionano, o ancora lanciano getti di liquido dall’odore putrido che non ti lascia per giorni. Spesso arrivano e iniziano a girare vorticosamente intorno alle nostre barchette malandate, fino a farle affondare o a spezzarle. Le loro navi da guerra sono veloci ed enormi in confronto ai nostri pescherecci, a cui tra l’altro non possiamo fare manutenzione perché l’assedio israeliano non ci permette di importare le materie prime necessarie”
Secondo Madleen inoltre “Israele restringe ed estende la zona di pesca spesso come misura punitiva, una specie di guerra economica dichiarata alla striscia e in particolare ai pescatori, provocando un profondo senso di insicurezza. È una punizione collettiva illegale che nulla ha a che fare con la sicurezza. Infatti spesso le misure più restrittive vengono imposte nel periodo migliore di pesca.”
Tre anni fa anche la sua barca viene confiscata da Israele, con tutta l’attrezzatura, lasciando Madleen completamente disoccupata e senza alcuna fonte di sostentamento. “È stato terribile per me e la mia famiglia, ho sentito di perdere ogni speranza, ancora oggi non so se riuscirò mai a riavere la barca. Poi mi sono inventata una nuova idea imprenditoriale nel tentativo di ripartire. Con grandi sacrifici sono riuscita a ottenere un prestito dalla Bank of Palestine per comprare una barca da destinare a giri turistici per donne e famiglie. Speravo in questo progetto per avere una minima stabilità economica e all’inizio non andava male. Ora non so, ormai la gente è sempre più povera, costretta a vivere alla giornata. La povertà purtroppo qui a Gaza colpisce tutti ed è soffocante.”
Ma Madleen è incinta e non può permettersi di guardare al futuro senza speranza, soprattutto dopo aver vissuto un’altra sofferenza atroce per la perdita del fratello Kayed, un anno più piccolo di lei, ucciso dai cecchini dell’esercito israeliano mentre manifestava pacificamente alla “Marcia del ritorno”.
“Oggi aspetto una bambina e ho un sogno, vorrei potesse nascere in una terra libera, vorrei che non dovesse subire l’assedio illegale israeliano che ci toglie tutto, la vita, il lavoro, la dignità, il futuro e i sogni. Anni fa ero stata scelta per rappresentare la Palestina ai campionati di nuoto in Sud Africa. Mi è sempre piaciuto molto nuotare, ma il blocco di Gaza non mi ha permesso di uscire dalla striscia, di viaggiare e quindi di partecipare alla gara. I miei sogni sono stati calpestati come vengono quotidianamente calpestate le nostre vite qui, sotto l’occupazione israeliana. Israele non potrà continuare in eterno a violare i nostri diritti umani e civili e prima o poi verrà giudicato. Mi auguro che la Comunità internazionale intervenga al più presto.
Io sono una pescatrice, chiedo solo di vivere a Gaza e di lavorare con dignità, di pescare nel nostro mare senza limiti, di vedere i nostri figli crescere sereni, senza il timore di essere bombardati, perché possano giocare, studiare, andare a scuola come tutti i bambini del mondo.” Nena News
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