L’ennesimo tweet sgradito alla casa reale rispedisce in carcere il noto difensore dei diritti umani, che ha accusato esponenti delle istituzioni di simpatizzare o anche di partecipare alla campagna di terrore dello Stato islamico. A novembre si vota, ma nel Paese il dissenso non è ammesso e le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno. La denuncia di Human Rights Watch
di Sonia Grieco
Roma, 3 ottobre 2014, Nena News – È di nuovo un tweet a mettere nei guai l’attivista bahreinita Nabeel Rajab, finito in manette per “oltraggio alle istituzioni nazionali” il primo ottobre. Nel commento incriminato, il difensore dei diritti umani, già incarcerato altre volte negli ultimi anni, ha accusato ex dipendenti del ministero dell’Interno di far parte dell’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante), il gruppo jihadista ora noto come Stato Islamico, che ha proclamato il califfato in Iraq. Lo ha reso noto la Ong Human Rights Watch (HRW) che chiede l’immediata scarcerazione dell’attivista.
Secondo Rajab, le “istituzioni (bahreinite) sono incubatori ideologici” da cui arrivano alcuni terroristi che adesso combattono in Iraq e in Siria. Il twitt è costato l’arresto all’attivista, appena rientrato da un giro in Europa, dove ha tenuto conferenze per denunciare le violazioni dei diritti umani perpetrate in Bahrein, dove il dissenso è messo a tacere a colpi di sentenze e arresti. Il minuscolo Stato della Penisola arabica dal 2011 è teatro di una mobilitazione spesso ignorata dalla stampa internazionale e repressa con pugno duro dalla dinastia sunnita Al Kahlifa che governa il Paese a maggioranza sciita.
Rajab ha spesso puntato il dito contro le leggi antiterrorismo, utilizzate per silenziare gli attivisti invece che per perseguire chi diffonde idee violente, simili a quelle propagandate dallo Stato Islamico, ha detto. Il twitt che lo ha portato dietro le sbarre un’altra volta, era un commento a un video che dimostrerebbe la sua tesi, in cui un ex membro della Sicurezza, Mohamed Isa al Binali, esortava i colleghi a disertare e a unirsi all’Isil.
L’obiettivo dell’arresto è “mettere a tacere uno dei più prominenti critici” della leadership del piccolo arcipelago, ha detto Joe Stork, vicedirettore di HRW per il Medioriente e il Nordafrica: “Arrestando un pacifico dissidente, il governo del Bahrein ha mostrato il suo disprezzo per i più basilari diritti umani, come la libertà di parola”.
Dal 2011, quando sull’onda delle primavere arabe anche i sudditi del Bahrein si sollevarono contro una dinastia che regna da circa due secoli, questo minuscolo regno affacciato sul Golfo Persico è teatro di proteste e sit in, non sempre pacifici, che hanno preso una piega settaria: sunniti contro sciiti.
Le tensioni religiose hanno sempre attraversato il regno dominato dai Khalifa, al centro del confronto tra due potenze regionali: l’Iran sciita e il regno sunnita dei Saud. La comunità sciita denuncia vessazioni da parte della casa reale, mentre il governo accusa l’opposizione, rappresentata soprattutto dal blocco sciita Wefaq (i partiti sono vietati), di essere una pedina nelle mani di Teheran e i manifestanti di essere terroristi. Nel 2011, la rivolta di Piazza della Perla, come fu ribattezzata dal nome della principale piazza della capitale Manama in cui si riunirono in presidio migliaia di manifestanti per chiedere riforme democratiche, fu soffocata nel sangue dall’intervento del Consiglio della Cooperazione del Golfo. La “Nato” della Penisola arabica dominata dall’Arabia Saudita che teme l’influenza iraniana sul minuscolo Stato. D’altronde il Bahrein ha un ruolo strategico per gli Stati Uniti: è il bastione dell’Occidente contro Teheran ed è sede della V flotta degli Usa, quella impegnata nel conflitto in Afghanistan.
Alla sanguinosa repressione della rivolta, il 14 febbraio del 2011, è seguita la proclamazione della legge marziale. Il governo di Manama ha imposto leggi liberticide che hanno portato in carcere molti minorenni, blogger, giornalisti, avvocati, attivisti per i diritti umani e persino i medici che avevano soccorso i dimostranti feriti. Una commissione d’inchiesta (la Bahrain Independent Commission of Inquiry-BICI) nominata dallo stesso sovrano ha stabilito che in quel mese di repressione, dalla metà di febbraio alla metà di marzo del 2011, c’è stata una sistematica violazione dei diritti dei manifestanti e contro gli arrestati è stata usata la tortura fisica e psicologica, ma non sono mai stati fatti i nomi dei colpevoli.
Nel 2013 si è aperta una fase di dialogo tra il governo e l’opposizione, segnata però da continui stop dovuti alla stretta repressiva di Manama. Sul tavolo della trattativa ci sono le riforme istituzionali per garantire una maggiore rappresentanza e partecipazione ai cittadini del regno, diventato una monarchia costituzionale nel 2002. Ma la fine del sultanato e una serie di riforme calate dall’alto non hanno intaccato l’oligarchia sunnita né il potere assoluto del monarca che ha sempre l’ultima parola su tutto. A novembre si torna alle urne per il rinnovo del Parlamento e molti attivisti temono di finire nel mirino della repressione. Nena News