La dichiarazione del presidente turco è stata riportata stamane dall’Afp. Ankara guarda però oltre: in primis alla vicina Manbij, ma anche all’Iraq dove parla di un piano congiunto con Baghdad per colpire i combattenti curdi del Pkk. Evacuazione di un migliaio di civili nella Ghouta orientale mentre si scalda il fronte meridionale
della redazione
Roma, 14 marzo 2018, Nena News – “Siamo sempre più vicini ad Afrin. Se Dio vuole, Afrin cadrà oggi pomeriggio”. A dirlo è stato oggi il presidente turco Erdogan secondo quanto riferisce l’Afp. Tuttavia, poco dopo la pubblicazione della notizia, una fonte governativa raggiunta dalla Reuters ha spiegato che il leader turco intendeva dire che “l’accerchiamento” della città curda nel nord della Siria sarebbe avvenuto entro questo pomeriggio e non la sua “caduta”.
Vero o meno che siano, le parole di Erdogan sono state subito respinte dalle Ypg, le unità curde che resistono all’avanzata turca iniziata il 21 gennaio. “Pare che Erdogan stia sognando a occhi aperti quando dice che Afrin cadrà stasera” ha affermato Redur Khalil, un ufficiale curdo. Parole comprensibili quelle di Khalil: la resistenza curda contro l’offensiva turca di queste settimane è stata così strenua che le forze armate di Ankara sono avanzate lentamente e al costo di molti militari uccisi. Eppure, nell’ultima settimana, l’operazione “Ramoscello d’Ulivo” sembra aver segnato un punto di svolta: i turchi hanno conquistato la strategica Jandaris e le aree intorno ad Afrin annunciando ieri l’assedio definitivo alla città. Un annuncio celebrato in pompa magna dalla Turchia quasi a voler ripulire l’immagine del suo esercito impantanato da oltre un mese nel pantano del cantone curdo di Afrin. Al momento Ankara ha uomini e alleati (i cosiddetti ribelli “moderati” pro-turchi) sia a sud est che a nord ovest della città e ha lasciato un solo corridoio aperto (quello che va verso Aleppo e le zone controllate dal governo di Damasco) per i 2.000 civili arrivati ieri nella zona di Nbul.
Ma la presa di Afrin rappresenterebbe solo la prima tappa dell’operazione “Ramoscello di Ulivo”: l’offensiva si allargherà. Non è possibile stabilire ora con certezza se arriverà fino al confine con l’Iraq come ha promesso Erdogan, tuttavia appare molto probabile che continuerà sui monti Qandil (nel nord dell’Iraq) in chiave anti-Pkk. Il ministro degli esteri Cavusoglu lo ha promesso la scorsa settimana: Ankara e Baghdad potrebbero iniziare un’azione militare congiunta contro i combattenti curdi dopo le elezioni parlamentari previste per il prossimo maggio.
Ma prima di Qandil, spesso bombardata in questi anni da Ankara in quanto base operativa del Pkk, ci sarà Manbij. Lo ha confermato ieri sempre Cavusoglu: Turchia e Usa, ha riferito, stanno pianificando un ritirata congiunta delle Ypg dalla città che inizierà dopo il 19 marzo. Non è ancora chiaro però che cosa ne sarà dei circa 2.000 marines statunitensi presenti nell’area. Quel che è certo però, giorno dopo giorno, è l’assoluto disinteresse dell’amministrazione Trump per il destino dei curdi di Afrin. Eppure erano stati gli stessi curdi che avevano permesso alla coalizione internazionale anti-Is a guida Usa di realizzare i successi contro il “califfato” a Raqqa e in varie aree dell’est siriano. Ma indifferente al fato dei curdi del Rojava è l’intera comunità internazionale che preferisce tacere dinanzi alla sanguinosa avanzata curda in Siria.
Certo, qualche tiepida protesta c’è di tanto in tanto: ieri è stato il turno del ministro degli esteri francesi Jean-Yves Le Drian secondo cui Ankara ha “preoccupazioni legittime” per la sicurezza dei suoi confini, ma che queste “non giustificano assolutamente” la portata della sua offensiva in Siria. “Niente può giustificare le operazioni militari che mettono in pericolo la popolazione” ha dichiarato Le Drian in parlamento. Critiche che poco interessano alla Turchia. Ieri, infatti, di tutta risposta, i capi militari turchi se ne facevano beffa vantandosi dei 3.400 “terroristi neutralizzati” dall’inizio delle operazioni. Ovviamente non facevano alcun riferimento ai civili uccisi: Ankara ha preso di mira solo “i terroristi, i rifugi e le armi che appartengono ai terroristi”.
Qualche notizia positiva giunge più a sud, dalla Ghouta orientale, l’area periferica di Damasco sottoposta dal 2013 ad un doppio assedio (governativo e delle opposizioni). Qui ieri, per la prima volta dall’inizio della “pausa umanitaria” raggiunta (e mai rispettata) due settimane fa, centinaia di malati e feriti sono stati evacuati grazie ad una intesa raggiunta con la mediazione dell’Onu tra il gruppo salafita Jaysh al-Islam e la Russia. Ma la presunta intesa, per quanto positiva, è una goccia di umanità in un mare di barbarie: gli scontri infatti proseguono senza sosta. Soltanto ieri le forze di opposizione hanno parlato di più di 40 morti.
Dopo otto mesi di relativo silenzio, si fa nuovamente caldissima l’area a sud della Siria, al confine tra Israele e Giordania. Il governo è tornato di nuovo a colpire in questi giorni la città di Dara’a che, insieme alla Ghouta est e alla settentrionale Idlib, rappresenta uno degli ultimi bastioni islamisti rimasti in Siria. Qui è attivo il Fronte Meridionale: nato nel 2014, è formato da una federazione di fazioni laiche e islamiste anti-al-Asad finanziate e armate da Usa, Francia, Regno Unito e Paesi del Golfo. L’instabilità e i primi scontri a fuoco hanno già causato la fuga di migliaia di civili. Nena News